MAKSIM GOR’KIJ E ANTON MAKARENKO TRA BIOGRAFIA E PEDAGOGIA

«Оживая прошлое я сам с трудом верю что

все было именно так, эти дни были для него

большими днями жизни».[1]

Максим Горький

MAKARENKO A GOR’KIJ

«Vorrei che nelle sere d’autunno i colonisti leggessero Infanzia e apprendessero che sono un uomo del tutto identico a loro, che ha saputo sin da ragazzo essere tenace nel desiderio di imparare e non ha temuto alcun lavoro».[2] Era il 1925 e Anton Semënovič Makarenko stava combattendo la sua battaglia più difficile, come pedagogista e come uomo, per difendere e sviluppare la colonia per besprizornye[3] che aveva creato nel 1920 nei pressi di Poltava, intitolandola proprio a Maksim Gor’kij. Nel 1923 al colonia era stata spostata presso la fattoria Kovalenko. Nel 1926 subirà un ulteriore spostamento presso l’ex monastero Kurjaž nelle vicinanze di Char’kov. In seguito a divergenze con il Commissariato per l’educazione popolare, Makarenko lascerà la colonia Gor’kij nel 1928 e si dedicherà alla direzione della comune Dzeržinskij, precedentemente creata con il sostegno della Čeka, sempre basandosi sui principi del collettivo pedagogico. Nel 1935, in seguito a critiche sempre da parte del Commissariato per l’educazione, il pedagogista avrebbe lasciata la sua attività per trasferirsi a Mosca e dedicarsi al lavoro di scrittore e di divulgatore attraverso conferenze radiofoniche e nelle fabbriche. Morirà, com’è noto, nel 1939.

Maksim Gor’kij ha ricambiato la stima e la fiducia di Makarenko, non soltanto sostenendo l’attività “antipedagogica” basata sulla prospettiva, ma recandosi a visitare la colonia e intrattenendosi con i ragazzi e con i docenti. Testimonianza di questo rapporto tra Gor’kij e Makarenko si ha nello stesso Poema pedagogico, il celebre romanzo in cui il pedagogista racconto la sua straordinaria esperienza rieducativa. Com’è noto, la narrazione si basa sull’esperienza realmente vissuta e sugli avvenimenti all’interno della «colonia Gor’kij» e della «comune Dzeržinskij», ma lo scrittore introduce elementi di fantasia per rendere più ricca e interessante il testo letterario, come del resto aveva fatto lo stesso Gor’kij pochi anni prima con la sua autobiografia, strutturata in tre volume: Detstvo (Infanzia), V ljudjach (Tra la gente) e Moi universitety (Le mie università). Ovviamente, gli inserimenti di fantasia sono in stretta elazione con i fatti accaduti, perché la realtà, nella concezione di entrambi gli scrittori, è legata alla verità, ovvero al fare conoscere in profondità cosa succede in Russia e tra la gente.

Nell’estate del 1928, dopo un lungo carteggio tra Makarenko e Gor’kij, l’autore del romanzo Mat’ (La madre) si recò a Char’kov per visitare la colonia che portava il suo nome, trattenendosi per tre giorni con i ragazzi e con i docenti. Subito dopo la partenza di Gor’kij, Makarenko lasciava la direzione della colonia per i contrasti con la direzione del Commissariato per l’educazione popolare sui metodi d’insegnamento all’interno del collettivo pedagogico, come ricordato precedentemente.

La colonia Gor’kij era stata creata subito dopo la guerra civile per ospitare i ragazzi orfani, gli abbandonati e i delinquenti da rieducare. Makarenko, consapevole della grandi difficoltà cui sarebbe andato incontro, anche per le ostilità dell’«Olimpo pedagogico» ovvero il Commissariato per l’educazione della provincia, d’accordo con i colonisti, chiese aiuto allo stesso Gor’kij, in quel tempo residente in Italia, precisamente a Sorrento.

Quando il Commissariato per l’iscrizione chiese a Gor’kij di liquidare la colonia di Kurjaž e di trasferire duecentottanta ragazzi alla colonia Gor’kij, Makarenko informò subito il collettivo pedagogico. “Udito il contenuto dell’accordo e delle disposizioni i ragazzi non gridarono urrà e non buttarono in aria nessuno. Solo Lapot’ disse nel silenzio generale:

– Bisogna scriverlo a Go’kij. E’ la cosa più importante, ragazzi, e non pigolare!

– Agli ordini: non pigolare! – strillò uno dei piccoli. Invece, KAlina Ivanovic alzò la mano e disse:

– Andate, ragazzi, e senza paura![4]

Maksim Gor’kij, a cui è dedicato il Pedagogičeskaja poema (Poema pedagogico), espresse subito il proprio interessamento e scrisse al Commissariato. La lettera di ringraziamento dello scrittore al presidente del Comitato esecutivo di Char’kov è stata pubblicata dallo stesso Makarenko. Eccola:

Mi permetta di ringraziarla di cuore per l’aiuto e l’attenzione prestati alla colonia Gor’kij. Benché io conosca la colonia solo attraverso la corrispondenza epistolare con i ragazzi e con il direttore, mi pare che essa meriti seria attenzione e un effettivo aiuto.

Fra i ragazzi abbandonati la criminalità è in continuo aumento e accanto a ottimi e sani germogli crescono molte mostruosità. Speriamo che il lavoro di colonie come questa che lei ha aiutato, ci mostri la via migliore per lottare contro ogni deformità, trasformando il male in bene così come questa ha già imparato a fare.

Le stringo forte la mano, compagno. Le auguro buona salute, forza d’animo e successi nel suo difficile lavoro.[5]

Quando si recò a visitare le colonie, nel mese di luglio del 1928, venne accolto da Makarenko e dai colonisti con grande entusiasmo. Quelle visite segnavano il successo della pedagogia makarenkiana, per molti aspetti portata avanti come un esperimento nell’ambito della difficile situazione socio-economica dell’Unione Sovietica di quegli anni. Ma quelle visite erano anche la conferma della giusta analisi che Gor’kij aveva fatto sulla narrativa di stampo realista. Raccontare la verità era stata la sfida di tutta la sua vita di scrittore, cercare e trovare la verità in tutte le persone e le cose, facendo comprendere al lettore la reale situazione morale e civile della Russia a cavallo del Novecento. Egli ha fatto leva sulla sua esperienza personale, sulla infanzia difficilissima e sull’adolescenza altrettanto dolorosa e poi sulla giovinezza di vagabondaggio attraverso le città e i villaggi lungo il Volga e nel Caucaso, fino ai confini della Turchia. Un vagabondare che ha avuto grandi effetti formativi che egli ha voluto presentare nei suoi aspetti più crudi, proprio per dimostrare che la sua produzione letteraria era improntata a dati autobiografici, anche se l’invenzione narrativa era prevalente, come egli stesso ammetterà in tutte le occasioni. Nella piena maturità artistica, nel 1907 scriveva a Konstantin Pjatnitskij: «Conosco male la vita e la letteratura russa, lo dico non senza rincrescimento: nessuno inventa meno di me. Dovrò pur scrivere la mia autobiografia, ove, con documenti alla mano, citando nomi e fatti, darò una ragione di tutto, persino delle vicende e degli stati d’animo più improbabili dei miei racconti».

Saranno i primi racconti a decretare il successo del giovane di Nižnij Novgorod. Makar Čudrá appare nel 1892 a Tiflis, capoluogo del Governatorato della Giorgia, dove egli lavorava nelle locali ferrovie. Ma saranno le opere che porteranno al primo grande romanzo Troe (I tre) che saranno basate sulle esperienze autobiografiche, in particolare a quelle del vagabondare in cerca di un lavoro all’altro lungo il Volga e la permanenza a Kazan’, fino alla lunga presenza nel Caucaso e in Crimea. E’ il periodo in cui nascono la bellissima favola Devuška i smert’ (La fanciulla e la morte), Čelkaš, Starucha Izergil’ (La vecchia Izergil’), Byvšie Ljudi (Ex uomini), Barin (Il padrone), fino al racconto più riuscito di quel periodo qual è Mal’va, splendida figura femminile che ha fatto parlare di una Hedda Gabler dei vagabondi e dei senza fissa dimora russi, in cui la scelta di libertà della ragazza rimanda alla figura creata da Henryk Ibsen. Ma non possono essere trascurati i racconti lunghi Konovalov, Suprugi Orlovy (I coniugi Orlov), Foma Gordeev, Varenka Olesova, Prochodimec (L’avventuriero). Pesnja o sokole (Il canto del falco) e Pesnja o burevestnike (Il canto della procellaria)) aprono la strada alla popolarità negli ambienti rivoluzionari e nei circoli socialdemocratici, richiamando anche l’attenzione crescente della polizia. Poi vengono i drammi teatrali che segneranno un successo travolgente per Gor’kij e infine Mat’ (La madre), il grande affresco della lotta per diffondere e affermare i caratteri della lotta di classe nella nascente società operaia del tempo, all’interno di un capitalismo primordiale, avido e rozzo, di formazione mercantile e agraria. Gor’kij aveva già lasciato la Russia e viveva a Capri dal 1906.

Egli era così convinto del valore educativo della sua esperienza che ha pensato bene di suggerire ad Anton Semënovič Makarenko di fare leggere ai colonisti proprio Infanzia. Non c’era bisogno di una tale sollecitazione, perché l’attività formativa della colonia era proprio centrata sulla lettura delle grandi opere della narrativa russa e in particolare di quelli impegnati a rappresentare le condizioni di vita e di lavoro del popolo. La fitta corrispondenza tra Gor’kij e Makarenko offre uno spaccato molto importante di questa collaborazione culturale e nelle stesso tempo di progettazione culturale, fino alla verifica dei risultati.[6]

Ma il rapporto tra i due passa soprattutto tra Gor’kij e i ragazzi della colonia. Ne fornisce una testimonianza ricchissima lo stesso Makarenko in alcune pagine del Poema pedagogico che costituiscono un documento della didattica moderna, quella incentrata sulla libertà d’iniziativa degli studenti e sulla responsabilità della proprie azioni formative, sempre sotto il controllo dei docenti e degli educatori. E nel Poema gli educatori sono del calibro di Anton Makarenko e di Kalina Ivanovič.

La nuova politica scolastica dei ragazzi aveva cambiato faccia alla colonia, trasformandola in qualcosa di più civile e più somigliante ad una normale istituzione scolastica. Ormai nessuno dei colonisti poteva avere più dubbi sull’importanza e sulla necessità dello studio. E questo stato d’animo veniva ancor più stimolato dal pensiero di Maksim Gor’kij. In una delle sue lettere ai ragazzi Aleksej Maksimovič scriveva: «Vorrei che in una sera d’autunno i colonisti leggessero la mia Infanzia. Da essa i ragazzi capirebbero che io sono in tutto un uomo come loro, solo che da giovane ho saputo essere tenace nel mio desiderio di studiare e non ho mai temuto nessun lavoro. Credevo fermamente che in effetti lo studio e il lavoro avrebbero superato qualsiasi ostacolo».[7]

Si giunge così al passaggio decisivo che riguarda l’iniziativa degli stessi colonisti. E qui si apprende una notizia di cronaca, si potrebbe dire oggi, cha ha dell’incredibile, se si pensa alle disfunzioni attuali dei servizi postali in Italia. Ecco le parole di Makarenko.

Già da molto i colonisti erano in corrispondenza con Gor’kij. La nostra prima lettera, spedita al breve indirizzo “Italia, Massimo Gor’kij”, con nostra grande sorpresa era arrivata a destinazione ed egli aveva immediatamente risposto con una lettera cordiale e affettuosa, che nel corso di una settimana avevamo letto tanto da consumarla. Da allora le lettere si succedettero con una regolare corrispondenza. I ragazzi scrivevano a Gor’kij un reparto alla volta e mi portavano le lettere perché le rivedessi ma io pensavo che non era necessario, perché sarebbero state più spontanee e Gor’kij le avrebbe lette con maggior piacere. Quindi il mio lavoro di redazione si limitava ad osservazioni del tipo:

-Avete usato della carta troppo scadente.

-Perché non avete firmato?[8]

Probabilmente Makarenko e i colonisti non erano a conoscenza che la residenza italiana di Gor’kij era Meta di Sorrento, a Villa Sorito, nel palazzo del duca Serracapriola e non più Capri. Nonostante tutto, il semplice nome sulla busta è stato sufficiente, una volta che la lettera giunse in Italia, perché il servizio postale si attivasse al meglio. La polizia italiana conosceva perfettamente l’indirizzo dello scrittore, perché era tenuto sotto stretta sorveglianza da parte dell’OVRA, anche se bisogna riconoscere che lo scrittore godeva di ampia libertà di movimenti e riceveva a Villa Sorito chiunque chiedesse di visitarlo, italiano, russo o di altre nazionalità che fosse.

Makarenko prosegue la narrazione con grande efficacia descrittiva.

Quando arrivava una lettera dall’Italia, prima che arrivasse nelle mie mani doveva passare in quella di ogni singolo colonista, in modo che potesse constatare con meraviglia che era stato proprio Gor’kij in persona a scrivere l’indirizzo sulla busta e dare un’occhiata e dare un’occhiata di disprezzo all’effige del re sul francobollo:

-Come fanno, quegli italiani, a sopportarlo per tanto tempo? Un re… a cosa gli serve?

Io ero l’unica persona autorizzata ad aprire la busta e leggevo la lettera ad alta voce una prima e una seconda volta, dopo di che passava di competenza al segretario del consiglio dei comandanti e poteva essere letta da chiunque a volontà, col solo obbligo di rispettare una condizione posta da Lapot’ (uno dei colonisti, nda):

-Non passate il dito sulla carta. Avete gli occhi, per leggere, cosa c’entrano le dita?

I ragazzi sapevano trovare in ogni riga di Gor’kij una intera filosofia, tanto più importante perché quelle erano righe su cui non si poteva assolutamente dubitare. Un libro sarebbe stato un’altra cosa. Un libro può essere discusso, respinto se esprime cose non giuste. Ma quelli non erano libri, erano lettere di pugno di Maksim Gor’kij stesso!

E’ vero, in un primo tempo i ragazzi avevano per Gor’kij una venerazione quasi religiosa, lo consideravano un essere superiore e imitarlo sembrava loro quasi un sacrilegio. Non credevano che fosse la sua vera vita, quella descritta nell’Infanzia.

-Uno scrittore così! Non ne ha certo viste poche, di vite. Ha descritto ciò che ha visto, lui

invece già da piccolo doveva essere una persona eccezionale.

Mi costò molta fatica convincere i ragazzi che Gor’kij nella lettera diceva il vero, che anche un uomo di talento somigliava a quella dei molti nostri colonisti ci diventavano chiari e comprensibili senza fare nessuno sforzo. Fu allora che i ragazzi cominciarono a provare un particolare desiderio di conoscere personalmente Aleksej Maksimovič e cominciarono a sognare il suo arrivo nello colonia, pur senza credere che ciò fosse minimamente possibile.[9]

In un contesto di crescente entusiasmo per la figura dello scrittore e nella prospettiva di un possibile incontro nella colonia, i ragazzi s’interrogano sulla loro natura di corrispondenti epistolari.

-Quindi, secondo lei, il fatto che ci ha scritto vuol dire che siamo come dei conoscenti di Gor’kij?

-Non dei conoscenti, – dissi, – siete dei gor’kiani. Lui è il nostro capo. se ci scriveremo più di frequente e riusciremo a vederci, diventeremo amici. Gor’kij non ne ha molti, come noi.

La figura di Gor’kij divenne finalmente per il nostro collettivo quella di un uomo normale e solo allora non vidi più segni di venerazione davanti al grand’uomo, al grande scrittore, ma un vivo amore per Aleksej Maksimovič e un sincero senso di riconoscenza per quell’uomo lontano, e un poco incomprensibile, eccezionale, ma vivo e reale.[10]

I ragazzi impegnati nello studio ma anche in attività pratiche, secondo l’insegnamento di Makarenko, discutono cosa regalare allo scrittore. La scelta cade sulla fabbricazione di un paio di stivali alla russa, nella convinzione che in Italia non esistano calzolai capaci di realizzare un modello gradito ad Aleksej Maksimovič, perché «gli avrebbe fatto piacere calzare stivali fatti dalla colonia e non da un qualunque calzolaio italiano[11]».

VISITA DELLA «COLONIA GOR’KIJ» A KURJAŽ

Quando Maksim Alekseevič Gor’kij visita la colonia, nel mese di luglio del 1928, è una gande festa. Rimasta memorabile nel ricordo dei colonisti, è lo stesso Makarenko che ne fornisce ancora una volta una descrizione ricca di notevole fascino narrativo.

Da aprile il tema dominante delle nostre chiaccherate era diventato l’arrivo di Gor’kij. Aleksej Maksimovič ci aveva scritto che a luglio sarebbe venuto a Char’kov, apposta per passare tre giorni alla colonia. La nostra corrispondenza epistolare con lui era ormai costante da molto tempo. Pur non avendolo mai visto i colonisti sentivano la sua personale presenza tra loro e ne erano felici, così come lo è un bambino davanti all’immagine della madre. Solo chi ha perso la famiglia fin dall’infanzia e non ha potuto portare con sé nessuna riserva di calore per la vita, conosce veramente il grande freddo che a volte ci può assalire; solo lui sa quanto possano valere le cure e le carezze di un grande uomo, di un uomo dal cuore ricco e generoso.

I gor’kiani non erano capaci di esprimere sentimenti di tenerezza, perché troppo alta era la stima che ne avevano. Io avevo passato con oro otto anni, molti avevano per me una profonda amicizia ma anche molta stima; ma in tutti quegli anni mai nessuno di loro mi si era rivolto con tenerezza nel vero senso della parola. Riuscivo a leggere loro i sentimenti da segni che io solo conoscevo: dalla profondità di uno sguardo, da un rossore improvviso, dall’espressione attenta con cui uno mi osservava da lontano, da un leggero abbassamento di voce, da salti di gioia dopo un incontro. Per questo capivo l’indescrivibile tenerezza con la quale i ragazzi parlavano di Gor’kij, con quanta avidità bevevano le poche parole con le quali ci annunciava il suo arrivo.[12]

Dalla lettura del testo, si comprende che all’entusiasmo dei colonisti, si aggiunge l’orgoglio di Makarenko per essere riuscito a ottenere quel risultato pedagogico e formativo, per il quale aveva messo in gioco tutta la sua esistenza. E lo afferma senza reticenze.

L’arrivo di Gor’kij nella colonia era per noi un grande premio. Posso dire sinceramente che non pensavamo nemmeno di averlo meritato del tutto. Era un premio che veniva dato proprio nel momento in cui l’intera Unione alzava le bandiere per accogliere il grande scrittore e la nostra piccola società poteva anche perdersi in quella grande ondata di sentimento nazionale.

Ma non si era persa e questo ci commuoveva e dava un grande valore alla nostra vita.[13]

Il riferimento all’intera Unione che «alzava alle bandiere per accogliere il grande scrittore» era riferita alla polemica che si era creata in Unione sovietica per la lunga assenza di Gor’kij, proprio mentre divampava la discussione sui caratteri propri da dare alla cultura post-rivoluzionaria. Era stato Vladimir Majakovskij ad attizzare il fuoco nel 1927 con un appello in versi rivolto proprio a Gor’kij.[14] La discussione che ne seguì non poteva restare senza conseguenze. Le pressioni sullo scrittore perché tornasse in Unione Sovietica si facevano sempre più insistenti. Alla fine egli decise di interrompere per qualche tempo il soggiorno a Meta di Sorrento, dove era impegnato a scrivere Žizn’ Klima Samgina (La vita di Kim Samgin), il grande affresco letterario sulla Russia a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, dopo avere ultimato l’altro grande capolavoro Delo Artomonovych (L’affare degli Artomonov). Durante una delle brevi assenze dall’Italia, nel 1928 Maksim Gor’kij trovò il modo di recarsi a Char’kov e fare visita a Kurjaž alla colonia pedagogica che portava il suo nome.

E fra tutti i premi che mi piovvero addosso in quel periodo, uno si rivelò inaspettato e bellissimo: non è possibile smantellare un collettivo vivo di quattrocento persone. Il posto di chi partiva veniva subito preso da altri ragazzi altrettanto svegli, energici e fieri. Le file dei colonisti si rinserravano come quelli di soldati in battaglia. Il collettivo non voleva morire e non voleva neppur sentir parlare di morte. Viveva invece animatamente, correva avanti su binari lisci e precisi, preparandosi con solennità e tenerezza ad accogliere Aleksej Maksimovič.[15]

Il riferimento di Makarenko allo smantellamento del collettivo tiene conto dell’atteggiamento critico del Commissariato per l’educazione popolare della provincia di Char’kov. Il collettivo non fu smantellato, anche per gli interventi precedenti di Gor’kij e per la reazione dei colonisti. Nonostante il clima teso con le autorità, la vita proseguiva il suo corso.

I giorni passavano e continuavano ad essere giorni magnifici e felici. Si ornavano di lavoro e di sorrisi come di fiori, le nostre strade splendevano limpide e risuonavano calorose parole di amicizia. Come sempre splendeva su di noi un arcobaleno di occupazioni, come sempre i riflettori dei nostri sogni tagliavano il cielo. Con la stessa gioiosa fiducia andavamo incontro alla festa, alla più grande festa della nostra storia. Quel giorno finalmente arrivò.

Già al mattino, vicino alla colonia si arano ammucchiati automobili e autorità, un battaglione di giornalisti, un battaglione di fotografi, di cineoperatori e di curiosi arrivati dalla città. Sui nostri edifici c’erano bandiere e ghirlande, fiori ovunque. I ragazzi erano schierati su ampie file, sulla strada montavano la guardia ragazzi a cavallo, nel cortile una guardia d’onore.

Alto e commosso, con un berretto bianco, Gor’kij, uomo dal volto di saggio e dagli occhi d’amico, scese dall’auto, si guardò intorno, si accarezzò con le dita tremanti i ricci baffi da operaio e sorrise:

-Salve… Questi… sono i tuoi ragazzi? Bene! Andiamo!…

Il saluto della banda alla bandiera, il frusciare delle braccia dei ragazzi che si alzavano, i loro sguardi accesi, le nostre anime aperte formavano il tappeto che avevamo disteso davanti all’ospite…

Gor’kij passò davanti alle file…[16]

Era il premio, il giusto premio rincorso dal pedagogista e dai suoi studenti. Era il riconoscimento da parte della massima autorità culturale sovietica del lavoro svolto in campo pedagogico, peraltro in un contesto difficilissimo, conseguenza della spaventosa guerra civile che era divampata in Ucraina, dove si addensavano numerose bande criminali e gruppi di oppositori al processo post rivoluzionario come quella dell’anarchico Nestor Ivanovič Machno.[17] Infatti, appena Gor’kij lascia Char’kov dopo la visita durata tre giorni, nel corso dei quali si sono svolti incontri, feste, cerimonie di ogni sorta, Makarenko lascia Kurjaž.

Sono passati sette anni. In generale, tutto è accaduto molto tempo fa.

Ma anche ora ricordo perfettamente, in tutti i suoi particolari, quel giorno, nel quale era appena partito il treno che portava via Gor’kij.

Il treno si mosse. I mucchi di ragazzi mi sfilarono davanti come in una festa. Mi gridavano “arrivederci” e, scherzando, alzavano il berretto con due dita. All’ultimo finestrino c’era Korotkov, che mi salutò in silenzio, sorridendo.

Uscii dalla piazza. I comunardi mi aspettavano schierati. Diedi un ordine e ci avviammo attraverso la città verso la comune.

Non misi più piede a Kurjaž.[18]

Si dedicherà alla comune Dzeržinskij le cui esperienze saranno al centro dell’altro romanzo Flagi na basnjach (Bandiere sulle torri).

Come si vede, nella corrispondenza con lo scrittore, Makarenko e i colonisti si rivolgono chiamandolo con il vero nome. Per loro non è soltanto l’uomo di successo e il maestro, la guida, ma è soprattutto un uomo e come tale deve essere considerato, ammirato e rispettato. Un ragazzo dall’infanzia difficile, dagli studi disordinati e dalla giovinezza altrettanto difficile che è riuscito con la forza di volontà a riscattarsi e a venire fuori dalla condizione sociale svantaggiata. Per i colonisti è il capo. La figura dell’uomo nuovo che anche Makarenko intende formare con la sua attività pedagogica, necessario per la costruzione della futura società socialista.

E’ appena il caso di ricordare che l’insegnamento di Makarenko ha avuto una notevole influenza nella pedagogia del Novecento e ancora oggi è oggetto di studi e ricerche a ogni livello.[19]

RAGIONI DELL’AUTOBIOGRAFIA GOR’KIANA

Dopo i grandi successi della narrativa creata durante la permanenza a Capri,[20] Gor’kij sentì la necessità di tornare sulla sua esperienza giovanile, proprio per rafforzare il carattere autobiografico della propria vastissima opera. «Che Gor’kij, al contrario dei critici, si rifacesse spesso a quella sua prima attività, è provato dal fatto che, quando, ormai vessillifero della teoria del realismo socialista, egli cercò di spiegarne l’essenza, non poté fare a meno di risalire al colorito romantico dei suoi primi racconti. Nell’attività di Gor’kij giovane, che comprese racconti di vario genere, quelli dedicati al mondo dei vagabondi e degli «ex uomini» sono i più significativi. Occorre notare che se nell’espressione «ex uomini» è abbastanza esattamente ridato il senso di quella russa «byvšie ljudi», con quelle di vagabondi si è lontani dal rendere quelle varie espressioni usate da Gor’kij per indicare i suoi eroi e che vanno dalle sfumature di coloro che camminano scalzi a quelle di avventurieri e di bricconi, tutti accomunati dallo spirito di vagabondaggio».[21]

La società russa, dopo l’abolizione della servitù della gleba e la nascita delle prime attività industriali, era permeata da quel vasto movimento sociale e culturale che andava da Narodnaja volja alle forme più estreme di nichilismo. Il movimento dei «Bosjaki» (Vagabondi) era una tendenza culturale oltre che sociale, una sorta di costume che riuniva il carattere della protesta e con la ricerca della propria libertà e personalità, avendo al centro un individualismo esasperato che risaliva a influenze filosofiche occidentali, da Schopenhauer a Nietzsche. Ci sono alcuni racconti gor’kiani che delineano con esattezza questi personaggi che, al contrario di quello che si potrebbe pensare, non sono dei miserabili e dei reietti. Molti di questi vagabondi hanno origine nobiliare, provengono dal mondo delle professioni e dell’amministrazione imperiale; altri appartengono alla piccola borghesia commerciale e al nascente mondo produttivo di tipo industriale. La noia e la mancanza di interessi economici e culturali da un lato e dall’altra il rifiuto delle responsabilità e delle convenzioni sociali, accanto alla necessaria limitazione delle proprie responsabilità personali, spinsero molti a disertare famiglia, lavoro, amicizie per vivere di espedienti e di miseria materiale e morale. L’alcol e l’abbrutimento sono la costante di queste figure. Qualcuno volle vedere l’esasperazione dell’animo russo, quella «stradanie» (umore) e anche della «toska» (angoscia), di cui tanto si parlava a proposito della narrativa di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Nei racconti Byvšie ljudi (Ex uomini), Step (La steppa), Suprugi Orlovy (I coniugi Orlov), Konovalov, Barin (Il padrone), Prochodimec (L’avventuriero), il comportamento di molti protagonisti appare incomprensibile, senza una motivazione e una logica. Eppure, la narrativa russa è piena di situazioni analoghe a quelle affrontate da Gor’kij: manca soltanto la crudezza e la violenza del linguaggio. Si pensi a Leskov, Saltykov-Ščcedrin, Korolenko, Kuprin, fino ad alcune opere di Lev Nikolaevič Tolstoj. Oltre alla schiera di figure tormentate della narrativa di Dostoevkij.

Le ragioni che spinsero Gor’kij a tornare sulla sua giovanile esperienza di vita, sono molteplici e nessuno meglio di Ettore Lo Gatto, che è stato lungamente in contatto con lo scrittore, può descriverlo.

Dopo il ritorno in Russia nel 1913, Gor’kij sarebbe restato piuttosto nell’ombra sia come narratore che come drammaturgo, non essendo né i suoi Racconti d’Italia né i suoi Racconti russi né i suoi drammi Gli Zykov e Il vecchio opere di primo piano, se non avesse pubblicato anche le due raccolte di ricordi coi titoli Infanzia e Fra la gente che dovevano ridargli l’aureola dei primi anni, mantenuta da questo punto di vista ancor più vivida con Le mie Università che egli pubblicò dopo la Rivoluzione del 1917. Molto pessimisticamente riandò nel pensiero ai giorni dell’infanzia e a quelli dell’adolescenza lo scrittore già maturo, quando pensò di rievocarli non soltanto per sé, ma per i suoi lettori.[22]

Come si è visto, la decisione dello scrittore è stata giusta. A distanza di circa trenta anni, i suoi ricordi erano ancora nitidi e precisi, filtrati tuttavia attraverso la rete del tempo. Egli non stravolge gli avvenimenti, né travisa i luoghi, ma da scrittore dotato di grande fantasia inserisce particolari e dettagli che rendono ancora più ricca la narrazione. Ma la verità e la sostanza autobiografica sono salvaguardate. Non c’è alcuna mistificazione, non si riscontrano falsità, non esistono strumentalizzazioni: la narrazione è finalizzata alla ricerca della verità, quella verità che gli uomini del suo tempo dovranno comprendere per incamminarsi sulla strada del cambiamento politico e sociale.

E’ sempre Lo Gatto a sviluppare considerazioni preziose al riguardo.

Troppo da vicino e dolorosamente egli aveva vissuto la realtà perché sia permesso di dubitare dell’indignazione dello scrittore rievocandone i momenti. Ma accorre aggiungere che, pur non dubitando della realtà dello sfondo del quadro e pur sapendo che nessun particolare della vita d’infanzia e d’adolescenza di Aleksej Peškov, sia inventato, si ha tuttavia l’impressione che non fosse del tutto erroneo il giudizio dello scrittore Fëdor Sologub, il quale nell’autobiografia gorkiana vedeva un certo sadismo, incomprensibile dal punto di vista psicologico. Accanto a pagine in cui si sente il soffio del miglior Gor’kij degli «anni novanta», pagine ispirate non solo dal ricordo dei fatti ma dall’animo con cui questi fatti erano stati vissuti, vi sono pagine così dure da non lasciar dubbio che al fanciullo e all’adolescente ch’egli era stato, Gor’kij attribuiva pensieri e sentimenti maturati in lui nelle dolorose esperienze. Queste esperienze egli chiamò poi «le mie università».[23]

La rievocazione, tuttavia, nella narrativa gor’kiana ha un posto molto importante, come dimostrano i ricordi dei suoi incontri con Anton Pavlovič Čechov, con Vladimir Galaktinovič Korolenko e soprattutto con Lev Nikolaevič Tolstoj. A proposito dei ricordi su quest’ultimo, Lo Gatto annota:

Il ritratto di Tolstoj che esce da queste pagine è vivo in tutti i suoi particolari, perfino nei gesti e nella maniera di parlare di tutto ciò che lo aveva interessato e lo interessava, da Dio alla donna, dal significato della vita e all’arte.[24]

Ma ci sarà modo di tornare su questi aspetti dell’opus gor’kiana, unitamente alla presentazione dei suoi capolavori teatrali e dei tre romanzi fondamentali: Mat’ (La madre), Delo Artomonovy (L’affare degli Artomonov) e Žizn’ Klima Samgina (La vita di Klim Samgin).

Agostino Bagnato

Agosto 2018 

[1] «Rivedendo il passato, io stesso stento a credere che per lui sia stato proprio così». Maksim Gor’kij

[2] Riportato in Autobiografia, XI volume delle opere complete di Gor’kij, a cura di Ignazio Ambrogio, Editori Riuniti, Roma 1956, ristampato nel 1963, dove sono riportati Infanzia e Tra la gente (traduzione di Bruno Carnevali) e Le mie università (traduzione i Ignazio Ambrogio). Vedi Nota finale, a pag. 719.

[3] Besprizornye, letteralmente senza tutela, sono i ragazzi abbandonato ospitati da Anton Semenovič Makarenko nella colonia intitolata a Maksim Gor’kij.

[4] Anton Semenovič Makarenko, Poema pedagogico, traduzione e cura di Nicola Siciliani de Cumis, l’albatros editore, Roma, 2009, p. 364

[5] A. S. Makarenko, op. cit., p. 480

[6] Anton Semënovič Makarenko, Carteggio con Gor’kij e altri scritti, traduzione di E. Profumo, introduzione di G. Bini, Armando editore, Roma 1968. Nuova edizione 2009

[7] Anton Semënovič Makarenko, Poema pedagogico, cit. p.310

[8] A. S. Makarenko, Poema pedagogico, cit. p. 310

[9] Op. cit., pp. 310-311

[10] Op. cit., p. 311

[11] Op. cit. p. 312

[12] Op. cit., pp. 532-533

[13] Op. cit., p.553

[14] Vladimir Majakovskij pubblicò la lettera in versi nel mese di gennaio del 1927 sulla rivista Novyj Lef. Il testo è una testimonianza importante del clima culturale che si era creato tra gli artisti attorno alle prospettive dell’arte sovietica. La statura di Gor’kij era tale che un suo intervento avrebbe contribuito a fare pesare gli orientamenti nella direzione del realismo che stava prendendo il sopravvento o della ricerca di nuove strade basate sulla spinta al rinnovamento dei primi anni della Rivoluzione. Ecco alcuni passaggi di quella celebre lettera: «Assai mi rincresce, compagno Gor’kij / che non vi si veda / nel cantiere dei nostri giorni. / Pensate / che da Capri / da una collina / si veda di più?.. / Aleksej Maksimyč, / dai vostri vetri / vedete ancora / il planante falco? / Oppure con voi ora stringono / amicizia i biacchi striscianti nel giardino? / E’ amaro / pensare / all’Amaro emigrante. / Discolpatevi / tuonate!» In Ettore Lo Gatto, Russi in Italia, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 240-241. Cfr. Vladimir Majkovskij, Opere, a cura di Ignazio Ambrogio, Editori Riuniti, Roma 1958, v. III, pp. 172-178.

Il riferimento al biacco è un rimando polemico al celebre Pesnja o sokole (Il canto del falco) in cui si svolge il dialogo tra il falco libero e audace con il serpe che striscia a terra, con allusione alla lotta tra il bene e il male, il futuro da costruire con la battaglia rivoluzionaria e il presente triste e avvilente della Russia alla fine dell’Ottocento.

[15] Op- cit., p. 553

[16] Ibidem, pp.535.536

[17] In Ucraina, tra il 1918 e il 1921 operò un folto gruppo armato, guidato da Nestor Ivanovič Machno, denominato Machnovščina, che dopo avere combattuto contro le truppe filo zariste al comando di Denikin e Vrangel’, scatenò furiose battaglie contro l’Armata rossa. Machno non accettava la politica di Lenin contraria alle istituzioni autonomiste dei territori controllati dagli anarchici. Lev Trockij sconfisse militarmente la Machnovščina alla fine del 1921.

[18] Op. cit., p. 557

[19] Per avere un quadro preciso delle valutazioni critiche sull’esperienza pedagogica di Makarenko e sull’attualità del suo impegno, vedi Nicola Siciliani de Cumis, Una scienza in carne e ossa, Guida editore, Napoli 2017

[20] Per saperne di più sulla permanenza di Gor’kij a Capri si rimanda alla numerosa pubblicistica, disponibile anche in italiano. Sull’attività politica e sui rapporti con Vladimir Il’ič Lenin, con riferimento in particolare alla polemica tra questi e Aleksandr Aleksandrovič Bogdanov, vedi Angelo Tamborra, Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917, Laterza, Bari 1977.

[21] Ettore Lo Gatto, La letteratura russo-sovietica, Sansoni editore, Firenze 1968, p. 73

[22] Ettore Lo Gatto, La letteratura russo-sovietica, cit., pp. 82-83

[23] Op. cit., p. 83

[24] Ibidem