L’Ascesa della democrazia senza diritti. “Popolo vs Democrazia” di Yascha Mounk

di Ettore Ianì

Prologo

333 pagine, di cui 76 di note, approfondimenti bibliografici, citazioni, fonti iconografiche, indice analitico e brevi ringraziamenti. Stiamo parlando di Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Feltrinelli 2018, il poderoso libro di Yascha Mounk, eminente politologo tedesco, scrittore e anche accademico ad Harvard. Un raffinato saggio che analizza gli scricchiolii del legame tra liberalismo e democrazia: un binomio non più indissolubile, messo in crisi dal populismo, dalla rivoluzione digitale e dalla globalizzazione. Mounk si occupa in questo libro, ma anche in altri, del deterioramento delle democrazie liberali e del come difenderle e rilanciarle. Lo fa senza cadere nella trappola di esaminare questo fenomeno soffermandosi sulla contemporaneità o in noiose geremiadi, semmai con lo fa con uno sguardo complessivo, con lo spirito di capire dalle lezioni che la realtà impone. Lezioni brutali, tanto da evidenziare come spesso sono le élite corresponsabili di un “liberalismo non-democratico”. L’Autore riesce a mettere a fuoco il carattere distintivo del populismo, fenomeno che si presta a mille interpretazioni e di norma viene usato per descrivere situazioni politiche diverse tra loro e movimenti che perseguono obbiettivi assai differenti. Per l’accademico di Harvard l’ondata populista si presenta come frutto della volontà popolare, come autentica voce della gente e potere alle persone: aboliamo queste istituzioni, ridiamo al popolo il comando e ogni cosa tornerà al suo posto. Ma una volta al potere, i problemi che avevano inventato e poi promesso di risolvere, e che avevano scatenato la rabbia popolare, riducono il peso della legalità, delle istituzioni libere, come la stampa, sindacato e associazioni cominciano ad ignorare le vere preferenze del popolo che si ritrovano con meno potere e con uno Stato illiberale, fazioso e razzista. Sono segnali che mettono in luce il “deconsolidamento” della democrazia e mandano in crisi la scuola di pensiero, a lungo accarezzata da numerosi scienziati politici, che nei paesi ricchi una volta conquistato il “consolidamento” fosse impossibile tornare indietro. Questa tesi non viene condivisa da Mounk e nel sottoporla ai raggi x riscontra come in generale i cittadini sono sempre più propensi a soluzioni autoritarie, come è accaduto in Polonia e Ungheria dove è iniziato un processo di una “democrazia illiberale”. Sembra valere la battuta secondo cui in una democrazia liberale per risolvere un problema c’è bisogno di utilizzare almeno tre frasi, al populista gliene basta una sola. Potenza degli slogan! Viviamo in una società che solo un quarto di secolo fa la democrazia liberale erano molto soddisfatti dei loro governi ed esprimevano un consenso alto nei confronti delle istituzioni, e anche gli avversari politici erano uniti dal comune rispetto delle regole: oggi le cose sono cambiate profondamente, tanto da rischiare di andare nella direzione opposta. Basti pensare che “oltre i due terzi degli americani adulti ritengono che sia estremamente importante vivere in una democrazia; tra i millennial , meno di un terzo la pensa così” (Pag.16). L’attaccamento alla democrazia perde smalto e cambia pelle, cosi come il rapporto liberalismo e democrazia va ripensato. “Il punto è, evidenzia Mounk, che ciascuna componente del nostro sistema politico sembra necessaria per proteggere l’altra. Abbiamo buone ragioni di temere che la democrazia liberale non possa sopravvivere, se uno dei suoi elementi viene abbandonato. Un sistema in cui è il popolo a scegliere rassicura che i ricchi e i potenti non possano calpestare i diritti dei più deboli. Allo stesso modo, un sistema in cui i diritti delle minoranze impopolari sono tutelati e la stampa può criticare liberamente il governo assicura che il popolo posa cambiare i suoi leader per mezzo di elezioni libere e giuste” (Pag.17). La democrazia senza i diritti corre il rischio di degenerare nella tirannia della maggioranza, i diritti senza la democrazia non necessariamente si rivelano più solidi. Forse il lento divergere tra liberalismo e democrazia è, secondo il politologo tedesco, quello che sta accadendo in questa fase.

Putin e il liberalismo

Un libro di grande attualità che mette in luce le caratteristiche principali del populismo e offre risposte chiare e persuasive al leader russo Vladimir Putin, che, in una lunga intervista concessa al Financial Times del 28 giugno 2019, ha sostenuto che “il liberalismo ormai ha esaurito il suo scopo”. E sui migranti aggiunge: “Trump ha ragione a bloccare i profughi”. Putin denuncia il fallimento e il superamento del liberalismo, principio nevralgico su cui hanno fondato la loro storia recente l’ Europa e gli Stati Uniti, in contrapposizione al comunismo. “Le idee liberali sono state sorpassate” e la conferma arriva dall’opinione pubblica su temi nevralgici come immigrazione, confini aperti e multiculturalismo. In particolare, si tratterebbe, sempre secondo il Presidente della Federazione Russa, di una ideologia obsoleta, superata dalla storia, non più in grado di affrontare i problemi di oggi perché “è diventata l’ideologia di una piccola élite autoreferenziale e lontana dal mondo reale”. Per Mounk, invece, liberalismo, inteso come “libertà di parola, separazione dei poteri e la tutela dei diritti individuali” (pag.34), per Mounk è vivo e vegeto, anche se con qualche acciacco, e va i difeso ad oltranza. La battaglia da fare è semmai contro il falso capitalismo mascherato dal liberalismo economico che produce ineguaglianza e ingiustizia.

Il paradigma del pollo

Ci sono lunghi decenni in cui la storia sembra rallentare […] poi ci sono quegli anni brevissimi in cui tutto cambia di colpo. Salgono alla ribalta nuovi politici. Gli elettori chiedono […] provvedimenti che fino al giorno prima erano impensabili. Tensioni sociali […] emergono con esplosioni terrificanti. Un sistema di governo ritenuto immutabile sembra sul punto di andare in pezzi. Un momento simile è quello in cui ci troviamo ora” (pag. 13). Con questa riflessione inizia una lunga disquisizione ricca di stimoli sulla crisi della democrazia liberale. Nell’introduzione, dal titolo assai eloquente, le “Illusioni perdute”, scrive che malgrado i suoi difetti la democrazia regnava sovrana e sembrava che il futuro non sarebbe stato molto diverso dal passato. Ma il futuro è arrivato per dirci che la realtà è assai diversa. I partiti tradizionali entrano in crisi, i cittadini sempre più inquieti e delusi dalla politica. I populisti attecchiscono “in tutto il mondo, dall’America all’Europa, dall’Asia all’ Australia […] e l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca è la dimostrazione più evidente della crisi della democrazia” (pag. 14). L’elezione di Trump, naturalmente per Mounk, non è certo un caso isolato. Ci ricorda come in Russia e Turchia sono stati eletti uomini forti che hanno trasformato democrazie fragili in dittature elettive; in Polonia e Ungheria, paesi di recente democratizzazione, i leader populisti indeboliscono le istituzioni indipendenti, imbavagliano l’opposizione limitano la libertà di stampa e creano una democrazia senza diritti; persino in democrazie stabili e tolleranti come la Svezia, Germania e Paesi Bassi gli estremisti di destra riscuotono successi senza precedenti. Il populismo non è però un fenomeno unitario, uguale sempre a se stesso, ma eterogeneo e multiforme, con una caratteristica comune: sono anti establishment e antisistema. Non è l’ideologia la loro caratteristica più significativa, semmai l’elemento che li definisce davvero è un peculiare stile politico che sa combinare l’ossessione per i nemici odiosi con l’offerta di soluzioni semplici a problemi complessi, condito da un profondo disprezzo per le istituzioni e i valori della democrazia rappresentativa. Questo aiuta a capire perché i populisti di sinistra a volta appaiono assai diversi dai populisti di destra nelle prime fasi, nella fase ascensionale, quando sono lontani dal potere, ma tendono ad assomigliarsi sempre più man mano che arrivano alle poltrone. Insomma, siamo attraversati dall’ onda nera dei populismi che minaccia le democrazie liberali.

Utilizza il paradigma del pollo del filosofo Bertrand Russel (pag.24) per metterci in guardia dal rischio di formulare previsioni senza aver compreso i motivi del perché le cose accadevano in passato. Proprio come il pollo che non capiva il perché il contadino lo aveva messo all’ingrasso, così anche noi potremmo essere ciechi ai cambiamenti che ci aspettano. Se davvero vogliamo metterci nelle condizioni di azzardare un’ipotesi plausibile sul futuro della democrazia, si chiede l’Autore, dobbiamo farci la “domanda del pollo”, ovvero: “la passata stabilità della democrazia era forse determinata da condizioni che non esistono più?” (pag.25).In sintesi, possiamo dire che per Mounk, il filo rosso che caratterizza la democrazia fin dalla sua nascita, ma che oggi ha perso il suo smalto, è composto da almeno tre elementi: 1) Il periodo della stabilità democratica, legata al fatto che la maggior parte che cittadini dal 1935 al 1985 hanno goduto complessivamente di un buon standard di vita. Fino agli anni Ottanta è stato possibile assicurare la protezione dei diritti individuali, pagando il prezzo di una perdita di potere del popolo a favore dei burocrati, banche centrali e organizzazioni internazionali; 2) Per circa mezzo secolo solo gruppo razziale o etnico ha dominato sugli altri, una chiara gerarchia razziale con i bianchi che godevano di notevoli privilegi; 3) Le migrazioni di massa di quest’ ultimi anni hanno trasformato l’omogeneità delle società avanzate. In America le minoranze razziali reclamano un posto al tavolo, in Europa rivendicano che anche un individuo di pelle scura o gialla possono essere cittadini europei. Accanto a questi tre fattori, ancora in crisi, ne aggiunge altre due: 1) L’ avvento di internet modifica rapidamente gli equilibri di potere tra insider e outsider della politica, i costi dell’organizzazione politica si riducono notevolmente, il gap tecnologico tra centro e periferia si riduce, dai laptop per le élite agli smartphone per chiunque, dalla possibilità solo per i ricchi di essere ascoltati nelle stanze del poter alla possibilità per chiunque di replicare ai propri leader su Twitter. Il controllo centralizzato dei mezzi di comunicazione da parte delle élite politiche lascia il posto all’avvento dei social media che hanno trasformato il modello comunicativo “da uno a molti” (Pag.137) in cui le varie posizioni si scontrano senza essere confinate ai margini del dibattito pubblico. Il consueto modo di comunicare viene scompaginato così come accadde durante il 15° secolo con l’invenzione della stampa a caratteri mobili di Johann Gutenberg, che ha dato vita all’industria libraria e la diffusione della cultura, “volgendo una funzione cruciale nella rinascita delle idee” (Pag.131) Anche se il potenziale negativo dei social media è fin troppo reale, per l’Autore “è semplicistico dire che si tratta di “forze devastanti” da cui nascerà di sicuro una terribile distopia. I social media non sono necessariamente buoni o cattivi per la democrazia liberale; 2) Il potenziale emancipatorio della globalizzazione ha reso, assieme alla rivoluzione informatica, le economie intimamente correlate e ha determinato una compressione dei redditi delle classi medie nei Paesi avanzati; una crescita che annaspa e che fa lievitare la disuguaglianza; una distribuzione iniqua della ricchezza; un aumento dei flussi migratori e una crisi di identità in larghi pezzi di società. Ha messo in crisi la sovranità e la natura degli Stati nazione, ha fatto esplodere il populismo come volontà popolare, indebolendo in tal modo la democrazia liberale. Partendo da questa analisi si può incominciare a capire da cosa è stata provocata la crisi della democrazia liberale, ma per comprendere come combatterla, aggiunge Mounk, servirà ancora più tempo. “Ciascuno di questi problemi, scrive il politologo tedesco, apre la strada a una sfida urgente e complessa. […] Eppure dobbiamo provarci, perché da questo potrebbe dipendere il destino della democrazia liberale”. (Pag.166)

Liberalismo e Democrazia: legame forte?

L’adesione della stragrande parte dei cittadini al sistema di valori tipici della democrazia, considerata una cosa acquisita, subisce una crisi di consenso e i partiti di estrema destra e i populismi si affermano e si diffondano in modo significativo un po’ ovunque. In Europa come negli Stati Uniti si afferma una dottrina economica che chiede la costruzione di muri per respingere i flussi migratori, ripristinare misure protezionistiche. Il legame tra liberalismo e democrazia, secondo Mounk, non è più indissolubile come nella cultura del Novecento. Prende piede una inedita era politica con la quale la democrazia liberale è chiamata a fare i conti. Al contrario delle democrazie liberali, che sono dotate di meccanismi di controllo il cui scopo è di impedire di concentrare troppo potere nelle mani di poco e di conciliare gli interessi generali della collettività, “per i populisti la volontà del popolo non deve essere mediata, e qualsiasi compromesso con le minoranze è una forma di corruzione” (Pag.19). Con lucido distacco e bonaria irrisione scrive che i populisti sono profondamente democratici perché, rispetto ai politici tradizionali, sono convinti che debba essere il demos a governare. Peccato, aggiunge, che sono anche profondamente illiberali perché, a differenza dei politici tradizionali, sostengono che la voce della gente non deve essere smorzata né dalle istituzioni, né dai diritti individuali.

Come fermare l’ascesa del populismo?

Cosa fare per evitare il collasso della democrazia liberale? Yascha Mounk prova a rispondere nell’ ultima parte del libro con un l’ambizioso titolo: “Rimedi”. Le sue proposte, una sorta di linee guida per il salvataggio della democrazia liberale, ruotano su alcuni concetti basilari. Per uscirne, è anzitutto utile reinsegnare, reimparare l’importanza dei nostri sistemi politici. Premesso che i cambiamenti degli ultimi decenni abbiano condotto i populisti a un passo dalla sede del potere, che il nazionalismo è come “come un animale mezzo selvatico, mezzo addomesticato” (Pag.195) che può fare danni immensi, l’opzione migliore, sostiene l’Autore, è calmare la bestia, addomesticarla con il “nazionalismo positivo”. Finché rimane sotto il nostro controllo, può essere utile per arricchire le nostre vite, tuttavia c’è sempre il rischio che si liberi dai limiti che gli poniamo, e quando accade può essere fatale. Malgrado i fondati timori sul nazionalismo, “non abbiamo altra scelta che addomesticarlo il meglio possibile” (Pag.195), per salvare la democrazia è necessario “unire i cittadini intorno a un’idea comune della nazione; dargli una vera speranza per il loro futuro economico; e renderli più resistenti alle bugie e all’odio che vedono tutti i giorni sui social media” (Pag.177). Ciò significa, secondo il professore di Harvard, ripensare i criteri di appartenenza allo Stato/Nazione, prendendo atto che il nazionalismo è vitale anche se deve misurarsi a nuove istanze e per farlo dovrà “essere aperto”, in altre parole diventare “inclusivo”. Non deve essere cieco alle ingiustizie persistenti, né privilegiare la nazione fino ad opprimere le minoranze interne, né promuovere il conflitto con altri paesi. “Al contrario, deve basarsi sulla tradizione della democrazia multietnica per mostrare che i legami che ci uniscono vanno ben oltre l’etnia e la religione” (Pag.189). Risanare l’economia è l’altro punto nodale. Gran parte dell’ansia che serpeggia nel tessuto economico e sociale nasce dal fatto che lo standard di vita della famiglia media è fermo da decenni, i giovani hanno meno successo dei loro genitori, la disuguaglianza aumenta, la maggior parte delle famiglie ha paura del futuro, di andare incontro a ulteriori privazioni materiali. La esperienza della stagnazione economica genera apprensione e i cittadini assistono preoccupati a una globalizzazione che rende sempre più difficile e complesso il controllo dei confini, delle trasformazioni economiche incontrollabili, con i posti di lavoro un tempo stabili ora precari, delocalizzati all’ estero o resi superflui dalla tecnologia e con i sindacati sempre più depotenziati. “Per fermare l’ascesa del populismo, scrive Mounk, dobbiamo placare questi timori complessi e immaginare un domani migliore. […] Le persone vogliono che la loro nazione sia in grado di decidere da sola e che sappia prendersi cura dei cittadini più vulnerabili nonostante i cambiamenti prodotti dalla globalizzazione” (Pag.197). Occorre placare questi timori creando uno Stato assistenziale moderno capace “di separare le prestazioni sociali dall’occupazione tradizionale. […] Sebbene sia indispensabile che le aziende condividano il peso dei servizi sociali chiave, non ha senso chiedere a quelle che creano molti posti di lavoro di dare un contributo proporzionalmente più alto rispetto a quelle che ne creano pochi. Lo stesso vale per i singoli individui: il numero di persone che vivono grazie alla ricchezza accumulata è in rapido aumento, dunque ha sempre meno senso imporre il finanziamento dello stato assistenziale soprattutto a chi si guadagna da vivere con il lavoro” (Pag.209). L’idea di separare lo stato assistenziale dall’occupazione tradizionale ha, anche un senso per l’Autore, rendendo trasferibili le assicurazioni sanitarie e i benefici pensionistici. Parallelamente sarà anche necessario ricostruire la fiducia nella politica e nella educazione dei cittadini valorizzando l’istruzione e la scolarizzazione. La difesa della democrazia liberale si fonda anche sull’impegno personale, ogni cittadino può insegnare i valori liberali, può farlo con chiunque, figli, amici, genitori. Ma non basta. Oltre alla rieducazione civica è necessaria una profonda trasformazione dei partiti moderati per renderli più moderni e più fantasiosi. Il cambiamento è il grande assente nelle prospettive dei partiti moderati, mentre è stato intercettato dai populisti che lo rendono estremo e impraticabile, sebbene lo straformano in un progetto che non esclude certo in senso di appartenenza che l’Autore chiama “patriottismo inclusivo” (Pag.189). Una sorta di terza via tra il nazionalismo che tende ad assomigliare alla xenofobia e alla restaurazione di vecchie ideologie come il fascismo e una negazione del patriottismo, come politica da affidare alle istituzioni sovranazionali.

Il libro chiude sostenendo che oggi è impossibile prevedere quale sarà il destino del nostro sistema politico ed esortando tutti a condividere un laicismo Atto di Fede pro democrazia. Non sappiamo quanto durerà l’ascesa dei populisti e come domani gli storici ne parleranno. “Nessuno può prometterci un lieto fine. Ma quanti di noi hanno davvero a cuore i nostri valori e le nostre istituzioni sono decisi a combattere per le nostre convinzioni senza pensare alle conseguenze. Anche se i frutti del nostro lavoro rimarranno incerti, faremo il possibile per salvare la democrazia liberale”.