LA VISITA DI LEONARDO DA VINCI A VILLA ADRIANA

Agostino Bagnato

Leonardo su Villa Adriana

TIVOLI. DISPUTA SULLE DATE

Leonardo da Vinci visitò le rovine della Casa di Adriano a Tivoli. La cosa è certa, come attesta un disegno all’interno del Codice Arundel, conservato alla British Library di Londra (f. 224 r). Il disegno mostra un tratto delle rovine; guardando attentamente è possibile individuare la collina alle spalle della villa vera e propria, ovvero quella più antica che apparteneva a Sabina, la moglie dell’imperatore Adriano; tra collinette e ruscelli, si può pensare ad una scena pastorale, mentre al centro si trova una grande e misteriosa montagna alla cui base spicca un’apertura di notevoli dimensioni, quasi fosse una porta vera e propria. Nella parte inferiore del disegno, invece, è tratteggiata una vasta caverna che si è aperta nel ventre della montagna, che presumibilmente costituisce il prospetto del Serapeo.

PLACIDO SCANDURRA: Leonardo visita Villa Adriana, disegno acquerellato su carta cm 35×24.5

Non è certa la data della visita, perché l’unico indizio è una iscrizione di mano dello stesso Leonardo su un foglio del Codice Atlantico (f. 616 v). «Tivoli vecchio, casa di Adriano» e la data «20 marzo 1501». Secondo alcuni studiosi, la datazione corrisponde alla cronologia proposta per il disegno del Codice Arundel nello stile ab incarnazione «Laus deo 1500 a dì 20 marzo». Potrebbe trattarsi dell’inizio dell’anno 1500 perché Leonardo da Vinci soltanto nel mese di aprile aveva fotto ritorno a Firenze, dopo essere stato nei primi mesi di quell’anno, in compagnia dell’amico matematico Luca Pacioli, alla corte di Mantova, ospite di Isabella d’Este. Successivamente si recò a Venezia, impegnato nei progetti di difesa della città lagunare dall’assedio dei Turchi chiamati da Ludovico il Moro. Ma ben presto la Serenissima Repubblica firmò un accordo con il sultano della Sublime Porta Bajazet II. Ricostruendo le date più significative dell’inizio del XVI secolo, non è impossibile che Leonardo sia potuto giungere a Roma, magari in compagnia di Cesare Borgia, per un viaggio di qualche giorno appena. Era l’anno del Giubileo e il papa Alessandro VI era impegnato a celebrarlo con grande sfarzo. Tuttavia, Cesare Borgia era giunto a Roma il 26 febbraio 1500, dopo la riconquista di Cesena. Ad attenderlo c’erano i cardinali Orsini e Farnese, in qualità di rappresentanti personali del papa, che gli andarono incontro e lo accompagnarono a Porta del Popolo, dove ambasciatori e cardinali riuniti lo aspettavano a capo scoperto.

Rudere di Villa Adriana_disegno acquerellato su carta_cm 17.5×24.5

Carri di preda bellica, coperti di stoffa nera, guidavano la processione, seguiti da due araldi, uno con il giglio francese, l’altro con il toro dei Borgia. Seguivano poi gli alabardieri svizzeri, gli uomini a cavallo e la guardia del corpo del duca, ciascuno con il nome «Cesare» ricamato in argento sul farsetto. Il condottiero Vitellozzo Vitelli guidava i gentiluomini dello stato maggiore, e da ultimo veniva il vincitore in persona, severamente paludato in una sopravveste di raso nero e con l’Ordine francese di San Michele attorno al collo. Aveva portato con sé la prigioniera Caterina Sforza, il cui aspetto maestoso in quella triste circostanza spinse un osservatore dal cuore tenero a parlare di «una novella Zenobia, avvinta in catene d’oro».[1]

Rudere di Villa Adriana_disegno acquerellato su carta_cm 17.5×24.5

All’apertura dell’anno giubilare per le vie di Roma, a fianco del pontefice e della bellissima Lucrezia, non c’era Cesare, impegnato in Roma a combattere per la conquista di Imola, Cesena e Forlì. Anche se Leonardo aveva conosciuto sicuramente Cesare Borgia a Milano, appena entrato in città al seguito di Luigi XII e del suo luogotenente Louis de Vigny, non c’era ragione della sua partenza per Roma, non essendo ancora al servizio del Valentino. In compagnia dell’ardimentoso Salaì avrebbe potuto prendere la strada per Roma, ma non c’era alcun motivo specifico, conoscendo lo scarso sentimento religioso dell’artista. Peraltro, sono sicure le date del soggiorno a Vaprio d’Adda presso la famiglia Melzi dopo conobbe il giovanissimo Francesco e poi quella a Mantova e Venezia. Pertanto, appare molto improbabile che abbia potuto percorrere l’Italia settentrionale e centrale per restare a Roma soltanto qualche giorno.

La visita a Roma può essere più plausibile nel 1501. Il maestro era già rientrato a Firenze dalla fine dell’anno precedente, era ospite dei monaci Serviti della chiesa della SS. Annunziata che gli avevano commissionato la pala Sant’Anna la Vergine e il Bambino, di cui resta il cartone oggi al Louvre, in cambio dell’ospitalità per sé e per l’allievo Iacopo Caprotti detto Salaì, demonio, allievo prediletto. E’ vero che si è più volte spostato da Firenze, come attesta Pietro da Novellara nelle lettere che scriveva a Isabella d’Este, duchessa di Mantova, ma non risulta essersi spinto fino a Roma.

Leonardo visita Villa Adriana_disegno acquerellato su carta_cm 23×35

«Se Leonardo fiorentino pictore se ritrova lì in Fiorenza pregamo la R.P.V. voglia informarsene che vita è la soa, cioè se l’à dato principio ad alcuna opera come n’è stato referto aver facto, et che opera è quella et se crede che el debba fermarsene qualche tempo lì, tastandolo poi V.R. come di Lei se ‘l piglieria impresa de farne un quadro nel nostro studio, che quando se ne contentasse remetteressimo la inventione et il tempo in arbitrio suo, ma quando la lo ritrovasse renitente vedi al mancho de indurlo a farne uno quadretto de la Madonna devota e dolce come è il naturale». Il reverendo padre Novellara si reca presso i Serviti e si informa; alcuni giorni dopo risponde alla marchesa che “la vita di Leonardo è varia e indeterminata e forte, sì che pare vivere a giornata”. La lettera continua con la descrizione di un cartone che il pittore ha finalmente finito con l’abbozzare per i frati, a quanto pare da schizzo milanese – La Vergine, Sant’Anna e Gesù Bambino. Il frate aggiunge che Leonardo non lavora a nient’altro, se si eccettuano alcuni interventi a dei ritratti dipinti da due suoi allievi.[2]

Sarebbe possibile dunque un breve viaggio in qualche periodo di quell’anno cruciale, magari in compagnia di quel Cesare Borgia che avrà rivisto in qualche occasione, come ipotizzano alcuni studiosi, ma non ci sono documenti che attestino questo viaggio con partenza da Firenze. Del resto Pietro da Novellara scrive alla marchesa di Mantova che la vita del pittore è «varia e indeterminata e forte, sì che pare vivere a giornata». Ma sono soltanto supposizioni e nessuno autorizza ad andare oltre le supposizioni. Tuttavia, la data indicata sul foglio del Codice Atlantico non può essere messa in dubbio, per cui questa resta l’indicazione temporale più probabile.

Leonardo visita Villa Adriana_disegno acquerellato su carta_cm 23×35

Diversa è la vicenda che prende corpo tra l’estate del 1502 e il mese di marzo del 1503. Leonardo è stato al servizio di Cesare Borgia, in qualità di ingegnere militare nella crudele guerra di conquista della Romagna da parte di quest’ultimo. Dopo quella tragica campagna militare, costellata da orrendi delitti che suscitarono l’indignazione di tanti, Leonardo è tornato a Firenze nel mese di marzo del 1503. Non si conoscono le ragioni per le quali ha lasciato il duca di Valence. Quello che è certo riguarda il ritiro di denaro depositato presso l’ospedale di Santa Maria Nuova che da sempre funge da banca. Di ritorno da una missione così impegnativa come quella di “ingegnere militare”, avrebbe dovuto depositare le somme percepite da Cesare Borgia. E’ possibile che il Valentino non lo abbia pagato? O Leonardo sia rimasto duramente colpito dalla crudeltà del suo padrone, in particolare dopo l’uccisione di Vitellozzi Vitelli? Non lo sapremo mai. I suoi taccuini non indicano il momento in cui ha lasciato Cesare (che potrebbe aver seguito a Roma in gennaio), né soprattutto i motivi per cui se ne separa…[3]

LEONARDO A ROMA NEL 1513

Ma anche di questa presunta visita a Roma nel mese di gennaio del 1503 non esiste documentazione alcuna. Per cui, la data più plausibile resta quella indicata dallo stesso artista con l’annotazione risultante dal Codice Atlantico e che la datazione calcolata fa cadere al 20 marzo 1501.

Nella città di origine della sua famiglia risiede a lungo, incaricato dalla Repubblica fiorentina di alcune opere, a partire dall’affresco riguardante La battaglia di Anghiari. Sono gli anni della composizione del ritratto più misterioso della storia dell’arte, ovvero la Gioconda. Poi è di nuovo a Milano, al servizio di Charles d’Amboise, governatore della Lombardia per conto del re di Francia Luigi XII.

Com’è noto, la storia del Ducato di Milano e quella personale di Ludovico Sforza detto il Moro, s’intrecciano con quella dell’Italia e danno il via alla dissoluzione dell’ordine conquistato con la pace di Lodi siglata nel 1454 che aveva assicurato alla penisola una relativa prosperità e soprattutto la ripresa degli studi umanistici e lo sviluppo delle arti e della scienza. Alla morte del re di Napoli Ferrante d’Aragona, Ludovico il Moro invoca l’aiuto di Carlo VIII re di Francia per difendersi dal tentativo di conquista del ducato di Milano da parte del nuovo sovrano napoletano, Alfonso d’Aragona, padre di Isabella d’Aragona, moglie di Giangaleazzo, il legittimo duca di Milano, per conto del quale il Moro governava. Secondo i suoi ambiziosi piani, il re di Francia avrebbe dovuto raggiungere l’Italia e conquistare il regno di Napoli, da sempre rivendicato. Ma tra i seguaci di Carlo VIII vi erano esuli milanesi come il conte Trivulzio e non erano oscure le mire della stessa Francia sulla Lombardia. Carlo VIII, alla fine del 1494, dopo il trionfale ingresso in Torino, Pavia, Pisa, Firenze, Roma e Napoli, si trovò impegnato in una difficile guerra fuori dai propri territori con la Lega Santa, promossa dallo stesso Ludovico il Moro che si sentiva sempre più minacciato. Il capovolgimento di fronte di Ludovico Sforza è uno degli episodi più discutibili di tutto il turbolento periodo che avrebbe portato distruzioni e lutti, cambiando l’assetto dell’Italia nel Cinquecento. La battaglia di Fornovo nei pressi di Parma, del 6 luglio 1495 segnò la sconfitta francese da parte delle preponderanti forze della Lega Santa e Carlo VIII decise di tornare in Francia. Alfonso d’Aragona aveva pensato bene di scatenare l’assalto al Ducato di Milano, rivendicandone il possesso per oscure ragioni dinastiche, pensando di conquistare Genova e superato l’Appennino ligure, calare su Milano. Ma le altre Signorie non sono state a guardare, concentrando l’attenzione su come respingere il re di Francia. Il ducato di Milano per il momento era salvo.

Soltanto alla morte di Carlo VIII nel 1499, il successore Luigi XII avrebbe occupato Milano, facendo fuggire Ludovico il Moro e la sua corte. Il giovane sovrano, la cui nonna era discendente dalla famiglia Visconti, rivendicava la potestà sulla Lombardia. Sostenuto anche dagli esuli come Trivulzio, ebbe facile gioco a penetrare in Italia e conquistare in poche settimane Milano, costringendo gli Sforza a lasciare la città. Il Moro aveva fatto riparare la famiglia a Innsbruck alla corte di Sigismondo d’Asburgo, sovrano del Sacro Romano Impero. Anche Leonardo avrebbe lasciato la città, dirigendosi con l’amico matematico Luca Pacioli a Mantova, ospite di Isabella d’Este e poi a Venezia. I soldati francesi, secondo la tradizione orale trasmessa, distruggevano il «gran cavallo» nel cortile della Corte Vecchia che attendeva la fusione in bronzo. Il monumento equestre a Francesco Sforza, che avrebbe dovuto consacrare alla gloria la scultura di Leonardo, non sarà mai realizzato.

Quando è stato a Roma, dunque?

Altri studi si attestano sul soggiorno romano di Leonardo dal 1513 al 1516. Nel 1511 muore Charles d’Amboise, luogotenente di Luigi XII per la Lombardia, al cui servizio è Leonardo, e i francesi poco tempo dopo sono cacciati da Milano. Per Leonardo è tempo di nuove avventure e nuovi padroni. Giuliano de’ Medici, fratello del nuovo pontefice Leone X, lo chiama al proprio servizio e lo conduce con sé a Roma. Inizia così il periodo più tormentato della vita del grande artista e scienziato. E’ costretto a dividersi tra esperimenti scientifici, progetti di fortificazioni militari e di prosciugamenti delle valli infestate dalla malaria, oltre che dipingere per Baldassarre Turini, ciambellano del papa. Ha trovato il tempo per recarsi a Tivoli? Gli storici sono di parere positivo. Mario Cermenati è perentorio.

Per tutto il primo semestre del 1515 Leonardo deve essere rimasto in Roma, salvo brevi gite che egli possa avere compiuto nei dintorni dell’Urbe: a Tivoli, a Civitavecchia, a Terracina; località che in questo frattempo, o prima o poi, o più tardi, egli indubbiamente visitò. Difatti, dagli appunti e disegni suoi, che saltano fuori qua e là dai manoscritti, possiamo arguire che egli fece una o forse visite al porto di Civitavecchia, alla Villa Adriana in Tivoli e alla regione della Paludi Pontine. Alle due prime località egli può essersi recato nel 1514 oppure nel 1516; ma lo studio delle Paludi Pontine quasi certamente fu da lui eseguito per conto di Giuliano de’ Medici, mentre questi era ancora a Roma e cioè prima del giugno 1515».[4]

In numerose biografie leonardesche non si fa menzione di queste visite e di conseguenza dei relativi progetti. Sicuramente perché alcuni storici non erano stati in grado di consultare i differenti codici, oppure perché non attribuivano importanza a queste esercitazioni. Eppure, si tratta di progetti importanti. Basti pensare al prosciugamento delle paludi Pontine che ha impegnato volsci, romani e pontefici per molti secoli, fino alla definitiva conclusione delle opere negli anni Trenta del XX secolo. Soltanto Mario Pomilio, che non è uno storico di professione, nel catalogo Leonardo, approntato nel 2003, parla della visita a Villa Adriana con assoluta certezza.

Fu a Roma nel marzo del 1501, come è attestato da un foglio del Codice Atlantico che sul recto reca il Mausoleo di Adriano (Castel sant’Angelo). La sua presenza nell’Urbe va considerata in virtù dei rapporti che egli intratteneva con il papa Alessandro VI Borgia e con il figlio Cesare Borgia, il duca Valentino, che probabilmente Leonardo aveva avuto modo di conoscere a Milano, quando questi entrò in città al seguito del re di Francia Luigi XII. Sicuramente visitò Tivoli e i ruderi della villa Adriana e quanto tutte le vestigia dell’antichità romana sollecitarono la sua curiosità si può arguire dalle creazioni artistiche successive a questo viaggio.[5]

A dire il vero, Pomilio si spinge oltre, azzardando anche l’identificazione delle conseguenze di quella visita sull’attività del maestro.

Il cartone della Sant’Anna, conservato alla National Gallery di Londra, verrà pensato subito dopo il Cenacolo, anche se recentemente la critica tende a datarlo più tardi. Essa riflette le idee che Leonardo aveva applicato all’Ultima Cena, la scala monumentale delle figure, lo stile e persino quel modo di rappresentare le figure. Argutamente Carlo Pedretti vi ha notato una trasposizione delle sculture delle Muse (Madrid, Museo Nacional del Prado) che Alessandro VI aveva ritrovato nell’Odeon di Tivoli e che il Vinci aveva potuto vedere durante il suo soggiorno romano. Il riferimento all’antico, il paragone con gli antichi sembra una costante nelle sue opere d’inizio Cinquecento e segna il contributo allo sviluppo del cosiddetto “High Renaissance Style”[6].

Leonardo può avere letto la descrizione che delle rovine di Villa Adriana ha fatto qualche decennio prima Enea Silvio Piccolomini, contenuta nei celebri Commentarii? Non è escluso, perché il celebre codice miniato si trovava in Vaticano e poterlo consultare non gli era impossibile.

Fuori dalla città (di Tivoli nda), a circa tre miglia l’imperatore Adriano costruì una splendida villa, simile a un grande borgo. Restano ancora oggi le volte alte e sublimi dei templi, si vedono le costruzioni semidistrutte delle sale e delle stanze, si scorgono i resti dei peristili e dei grandi portici a colonne, delle piscine e dei bagni. Lì veniva un tempo deviata l’acqua dell’Aniene, a portarvi refrigerio dagli ardori estivi. Il tempo ha sfigurato ogni cosa. Quei muri, che erano ricoperti di tappeti dipinti e di drappi intessuti d’oro, sono ora rivestiti d’edera. Pruni e rovi sono cresciuti dove sedevano i tribuni vestiti di porpora, e i serpenti hanno invaso le camere delle regine. Quanto effimere sono le cose mortali! Nel tratto fra questa villa e Tivoli si stendono vigneti e oliveti bellissimi, e nelle vigne si trovano alberi d’ogni genere e gran numero di melograni che danno frutti di grande misura e sapore squisito.[7]

Resta tuttavia il dubbio. Anche se Leonardo si fosse basato su questa mirabile descrizione, cosa poco probabile ma non impossibile,[8] la sua curiosità e la sete di conoscenza e di esperienza lo hanno spinto sicuramente a compiere il viaggio. Del resto, in quel tempo Roma era immersa nel fervore degli scavi e delle ricerche archeologiche. Il rapporto con l’antico e la classicità è una costante dell’Umanesimo e del primo Rinascimento.

Come ha percorso i circa trenta chilometri da Roma e Tivoli e a Villa Adriana? Sopra una carrozza signorile, a cavallo come usava far spesso essendo un abile cavalcatore, sopra un carrozzino noleggiato, sopra uno dei tanti carri che da Roma raggiungevano Tivoli per approvvigionarsi di derrate agricole e tornavano in città il giorno dopo? Non si saprà mai. Piace pensare che abbia raggiunto la casa di Adriano, come la chiama, a dorso di cavallo, percorrendo in compagnia di Salaì e magari del giovanissimo Francesco Melzi se la visita è avvenuta durante il secondo soggiorno romano, l’antica via consolare, la strada tiburtina che raggiungeva ponte Lucano e lasciava a sentieri lungo il corso del fiume Aniene di raggiungere le rovine. La località era nota come Barco e qui erano ormeggiate le chiatte che portavano la pietra estratta dalle cave di travertino della zona fino a Roma. Ancora oggi è così: alle chiatte si sono sostituiti i grandi TIR. Una bella descrizione del percorso da Roma a Tivoli offre lo scrittore Joules Gourdault.[9]

L’ultimo affluente sinistro del Tevere a monte di Roma, come abbiamo visto è l’impetuoso Teverone (nome medievale dell’antico Anio, l’Aniene odierno, nda), figlio dei monti della Sabina. Parecchie vie, tra cui la Tiburtina, conducevano un tempo in questa bellicosa regione abitata da una razza così forte che Roma – come ci riporta Strabone – cominciò a godersi le sue ricchezze sono quando ebbe ridotto all’impotenza questi temibili vicini.

Attraverso la porta San Lorenzo (anticamente Esquilina), raggiungeremo questa regione incantata dell’ex Tibur che, con le colline Tuscolane più a sud, rappresenta la Svizzera della piccola campagna.

Dopo aver lasciato a sinistra la basilica di San Lorenzo fuori le Mura, attraversiamo la linea ferroviaria per Ancona che si dirige a destra verso i monti Albani. Subito ci troviamo in un vero e proprio deserto; qua e là sotlanto qualche locanda, qualche gregge di buoi o di cavalli che pascolano la poca erba. Poi il terreno comincia a salire; alcuni boschetti annunciano la vicinanza dell’Aniene, che si supera una prima volta sul ponte Mammolo. Si costeggiano poi alcuni piccoli laghi e si attraversa il canale della Solfatara (aquae albulae degli antichi) che va a versare nel Teverone le sue acque schiumose e fetide. Agrippa vi aveva stabilito delle terme dove Augusto veniva a bagnarsi. Un po’ più lontano, si passa nuovamente il fiume nel luogo pittoresco del ponte Lucano, vicino al quale sorge un monumento forma di torre merlata, sepolcro della famiglia Plautia. Al di là di questa tomba, il cammino si biforca: a sinistra affonda nei boschi di ulivi che portano a Tivoli; a destra prosegue nella pianura.

Seguiamo dapprima questo sentiero: ci condurrà in venti minuti alla famosa villa di Adriano. Non ne rimane che un enorme caos di rovine. Per diversi chilometri si incontrano delle massicce fondamenta, fusti di colonne, blocchi di pietra sparsi, frammenti di muri rimasti in piedi; sulle prime, queste rovine erano state scambiate per i resti della stessa Tibur, che si supponeva occupasse la pianura prima di estendersi sui monti. La gente del posto chiama ancora questo luogo Tivoli Vecchia.

La distruzione della residenza di Adriano risale probabilmente dal tempo di Totila, che devastò tutta la regione Tiburtina, compresa la città; dopo di ciò, l’aratro passò sui viali del parco, e i giardini si trasformarono in coltivazioni. Nel XV secolo, tuttavia, rimanevano ancora dei resti dell’immensa villa, perché Pio II, che visitò il luogo, rimase estasiato di fronte alle volte dei templi, le colonne dei peristili, i portici, gli stagni.

Oggi, l’opera di livellamento è completa. Lungo i muri, un tempo decorati da delicate pitture e ricchi di arazzi, abbondano l’edera e i rovi, i serpenti si annidano nelle stanze da letto. Il Rinascimento ha dato il colpo di grazia; ha scavato il suolo e sventrato gli edifici per riportare alla luce mosaici e statue. Ma che opere d’arte sono uscite in effetti da questo lembo di terrà! La Venere medicea, l’Antinoo, i Centauri di marmo del Campidoglio, le Muse e la Flora del Vaticano!

Questo saccheggio del passato è durato diversi secoli. Solo ai nostri giorni, il governo italiano ha comprato la villa dai suoi ultimi proprietari, i Braschi, e ha messo fine allo sfruttamento della sua grande rovina.

Posta ai piedi del monte dove sorgeva Tibur, la villa di Adriano, aperta alle umide brezze dell’ovest, era in compenso riparata dalle colline dei dintorni dai venti malsani del sud. A nord si estendevano due piccoli valloni paralleli che racchiudevano un pianoro a terrazza lungo due o tre chilometri e bagnato da due ruscelli provenienti dai monti Sabini che si univano nelle vicinanze della villa prima di gettarsi nell’Aniene.

Qui, in un perimetro di circa dieci miglia, si vedeva una specie di compendio delle meraviglie del mondo allora conosciuto: il Liceo, l’Accademia, il Pecile di Atene, il Serapéo di Canòpo, la valle di Tempé, il Tartaro e l’Eliseo; poi teatri, templi, una naumachìa, caserme per i Pretoriani. Tra i due angoli estremi della gigantesca casa erano stati scavati dei corridoi sotterranei (cryptoporticus) che permettevano al signore di andare a suo piacimento – senza temere il caldo e gli importuni – da una parte all’altra della sua tenuta di campagna. Uno dei due ruscelli, sebbene in secca per una parte dell’anno, ha ricevuto dagli archeologi il nome classico di Peneo […]

Il luogo è ancora oggi affascinante: magnifici boschetti di ulivi dai tronchi curiosamente ritorti e nodosi crescono sui freschi tappeti erbosi; di fronte sorge Tivoli con i suoi campanili, le case antiche, le stradine di montagna, le ville moderne e i pergolati retti da pilastri di pietra bianca.

Bisogna provare ad immaginare lo stupore, l’emozione e la concentrazione di Leonardo di fronte a questo grandioso spettacolo! Fino ad allora, non aveva visto nulla di simile né a Firenze, né a Milano. A Fiesole le rovine del teatro romano erano ben poca cosa per rendersi conto della grandezza del passato. Per cui la visita di Tivoli e di Villa Adriana segna un punto di arrivo importante del suo percorso. All’età di cinquant’anni veniva in contatto con le vestigia più celebri dell’antichità romana.

LEONARDO E LA CLASSICITA’

Le ragioni della visita di Leonardo a Tivoli e a Villa Adriana, pur non essendo esplicitate, sono legate al recupero della tradizione classica dovuta all’Umanesimo e al primo Rinascimento, come è stato ricordato.

La conoscenza e l’amicizia con Donato Bramante dal tempo del soggiorno milanese e rinnovata successivamente a Roma, dove il grande architetto era impegnato nella costruzione della nuova basilica di S. Pietro in Vaticano, dopo avere progettato palazzo Riario e il tempietto sul Gianicolo, hanno fornito ulteriori impulsi in questa direzione. Così come l’osservazione delle opere del Filarete, l’altro grande architetto milanese, autore del Castello sforzesco. Né bisogna dimenticare che dal comasco provenivano grandi maestri muratori e scalpellini che hanno fatto grande l’arte delle costruzioni, alcuni dei quali si sono spinti fino a Mosca, chiamati dagli zar del tempo per la costruzione del Cremlino. Ma c’è una ragione più vicina nel tempo e che riguarda gli studi dello storico Flavio Biondo che avevano influenzato positivamente gli indirizzi della ricerca archeologica e del recupero delle rovine. Di questo storico non si parla abbastanza, probabilmente per la vastità della sua erudizione e per la mancanza di una scuola a lui legata, a differenza di Leon Battista Alberti.

Monumento a Leon Battista Alberti, Firenze, Uffizi

Flavio Biondo,[10] nato nel 1392 nella città di Forlì, provincia di Romagna dello Stato Pontificio, ebbe un’ottima istruzione umanistica sin dalla fanciullezza, proseguita in anni di attività letteraria e di studio dell’antichità. Si trasferì a Roma nel 1433 dove venne nominato alla segreteria della curia nel 1444, svolgendo le proprie funzioni nella cancelleria. Fu Notaio della Camera Apostolica, segretario di Papa Eugenio IV, Niccolò V, Callisto III e infine di Pio II, l’autore dei Commentarii che aveva nei suoi confronti una grande considerazione. Il merito principale di Flavio Biondi è di avere compilato in quegli anni tre raccolte di saggi sulle antichità romane, che sono una vera e propria enciclopedia rimasta alla base di tutte le opere successive. Biondo pubblicò tre guide documentate e sistematiche alle rovine dell’antica Roma, che gli diedero la fama di essere il primo degli archeologi. Ai suoi tempi si era in gran parte persa a Roma la memoria dell’identità degli antichi edifici di cui ancora emergevano le rovine. Quando nel 1430 Poggio Bracciolini scalò il Campidoglio vide intorno soltanto distese di campi abbandonati: il Foro Romano era pascolo per capre, pecore, maiali e bovini, cresceva liberamente la vegetazione. Flavio Biondo e i suoi colleghi umanisti come Leon Battista Alberti cominciarono ad occuparsi dell’architettura, della topografia e della storia di Roma antica, sia documentandosi sulle fonti degli autori classici, sia esplorando ed esaminando le rovine degli antichi edifici e templi.

Flavio Biondo

Il primo lavoro di Biondo, pubblicato in tre volumi tra il 1444 e il 1446, fu il De Roma instaurata, Roma restaurata, una fedele ricostruzione della topografia romana antica e tardo-antica basata sia sull’analisi puntuale delle fonti letterarie classiche, sia sull’indagine archeologica dei resti allora visibili. In questo senso si può parlare della nascita della moderna archeologia, anche se manca la sistematica campagna di scavi per porre alla luce quanto il tempo ha nascosto. Nel 1459 pubblicò quindi il popolare De Roma triumphante, I trionfi di Roma, che narra la storia della Roma pagana come modello per il governo della cosa pubblica e per le attività militari contemporanee. Il libro ebbe grande influenza nell’alimentare tra i romani il patriottismo ed il rispetto per la Roma antica e nel presentare il papato come la continuazione dell’Impero Romano. In questo senso superava l’esempio di Cola di Rienzo, il cui civismo era sfociato in tragedia.

Ma Flavio Biondo non si limitò agli aspetti archeologici. I suoi studi spaziarono in campo storico, con opere come l’Italia illustrata, scritto tra il 1448 e il 1458 e pubblicato nel 1474, e l’Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades, Le decadi storiche dal declino dell’impero romano, scritto tra il 1439 e il 1453 e pubblicato nel 1483.

L’Italia illustrata è un libro di memorie che, basato sui viaggi personali dell’autore, al pari dei Commentarii di Pio II, oltre che di storia di diciotto province italiane allora esistenti. La parte storica inizia con la Repubblica romana e prosegue con le diverse fasi dell’Impero, attraversa 400 anni di invasioni barbariche e propone un’analisi dell’esperienza di Carlo Magno e degli imperatori del Sacro Romano Impero che si sono susseguiti che avrà un successore in Edward Gibbon. Flavio Biondo in questa opera, oltre a studi di storia e geografia, affronta la storia dell’arte e quella della letteratura. In effetti, egli è il primo a tracciare una storia dell’Umanesimo letterario, ovviamente con ottica contemporanea e all’insegna della riscoperta dell’eloquenza latina e greca. Questo excursus sulla storia della letteratura è all’interno della descrizione della ‘Romandiola’, ossia della sua regione natale, la Romagna. Biondo ha dato grande importanza al mondo contemporaneo, aggiornando la sua opera negli anni, come dimostrano le correzioni autografe fatte sui manoscritti conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, segno evidente di una ricerca incessante e dell’attenzione alla cronaca vissuta.

La maggiore opera di Biondo fu l’Historiarum, concepita in 32 libri, una storia dell’Europa che inizia dal 412, due anni dopo il Sacco di Roma da parte di Alarico, fino al 1442,anno in cui pose fine alla stesura del grande saggio. L’opera utilizza solo fonti primarie e accertate e introduce il concetto di Medioevo, che copre l’intero periodo dalla caduta dell’Impero romano fino ai tempi dell’autore, nonostante egli non indichi mai tale periodo con una precisa definizione. La parola Medioevo è così entrata, prima nel linguaggio dotto e successivamente in quello popolare.

Flavio Biondo si oppose alla teoria di Leonardo Bruni secondo la quale il latino subì dal proprio interno corruzioni e mutazioni che portarono alla nascita del volgare; sostenne invece che la causa fu l’aggressione esterna dei popoli longobardi che apportarono parole dalla radice completamente nuova e quindi facili a inserirsi nella trami della lingua storica. Gli studi moderni di linguistica hanno mostrato che le due teorie non sono effettivamente incompatibili e che il latino si è evoluto sia per ragioni interne che esterne.

Per Leonardo da Vinci, ancora più significativo deve essere stato lo studio dell’opera di Leon Battista Alberti, con il quale c’è stata una corrispondenza intellettuale molto importante. Per Leonardo la conoscenza dell’opera albertiana ha un valore di completamento delle sue conoscenze personali. In effetti, non si può parlare di influenza preponderante sulla sua formazione, che, come sappiamo, si basa soprattutto sull’osservazione e sull’esperienza. Ma per coloro che si occupavano di costruzioni civili, religiose e militari non si poteva prescindere dall’esempio del maestro, anche se l’eredità di Bramante e del Filarete era molto forte. Leonardo non ha conosciuto personalmente il grande architetto, ma nella bottega del Verrocchio qualche traccia del suo magistero deve pur essere giunta, anche perché in quegli anni l’Alberti lavorava al completamento della facciata di S. Maria Novella .

Leon Battista Alberti è nato a Genova 1404, da padre bandito da Firenze a causa delle lotte intestine dell’epoca, ed è morto a Roma nel 1472. E’ figura imprescindibile del Rinascimento italiano. Appassionato di letteratura ma anche di matematica, scrittore e grande architetto, pedagogista e teorico dell’arte, uomo di studi e della cultura del corpo sotto l’aspetto fisico, sintetizzò nella sua opera i caratteri tipici dell’Umanesimo che sfoceranno nel Rinascimento. La curiosità per il creato che circonda l’uomo e il vasto spettacolo del mondo; l’amore per gli antichi, in modo particolare per i Romani; la passione per le arti come suprema manifestazione della creatività umana e come ricerca dell’armonia; l’ideale dell’uomo virtuoso, che cerca di forgiare il proprio destino: sono questi i caratteri predominanti della formazione dell’umanista. L’arte dell’Alberti fu decisiva per i successivi sviluppi della architettura nei secoli successivi. Dallo studio dei monumenti antichi egli ricavò un senso delle masse murarie e del movimento ben diverso dalla limpida semplicità del Brunelleschi, e se ne valse in modi originali che precorsero l’arte del Bramante.

Studiò a Venezia e Padova, passò poi a Bologna ove nel 1428 conseguì la laurea in diritto canonico. Le competenze acquisite nel prestigioso ateneo furono decisive per il ruolo svolto alla curia di Eugenio IV, che seguì nelle varie tappe del suo avventuroso pontificato. In conseguenza delle proficue prestazioni, poté godere di numerosi benefici ecclesiastici. La sua situazione nella curia migliorò sotto Niccolò V e successivamente sotto Pio II. Ma nel 1464, il pontefice Paolo II, succeduto al Piccolomini, soppresse il collegio degli abbreviatori e per l’umanista si verificò una perdita di funzioni. Si dedicò all’attività letteraria, iniziando con una commedia moraleggiante in lingua latina nel 1424, intitolata Philodoxeos; questo moralismo si precisa nelle bizzarre Intercoenales latine, satira della discorde e traviata convivenza umana. L’attività prosegue sull’esempio di altri letterati del tempo, con il dialogo Pontifex del 1437 sulla dignità del sacerdozio, e soprattutto il Momus o De principe del 1443 che richiamano le opere letterarie della giovinezza di Enea Silvio Piccolomini. Tutte le opere maggiori sono in lingua volgare, come Teogenio del 1440 circa, dialogo in cui è ripreso il motivo umanistico della virtù che si impone all’avversa fortuna; il dialogo Della tranquillità dell’animo del 1442, e De Iciarchia del 1468, ultima opera che in tre libri riprende e conclude il discorso sul governo della casa, dal greco οἰκεαρχία, inteso come regno autonomo e libero che l’uomo costruisce a sua misura, in contrapposto alla casa pubblica, ovvero lo Stato. Sono così anticipati i temi di Thomas Moore e di Francis Bacon. Ma nell’opera letteraria eccelle il trattato dialogico Della famiglia: i primi tre libri, che risalgono al 1433-34, trattano dell’educazione dei figli, della vita coniugale e domestica, ascendendo al ritratto dell’uomo virtuoso che accentra e conforma a sé il nucleo familiare; il quarto, pubblicato nel 1441, tratta dell’amicizia, tema che Leon Battista Alberti propone quell’anno per il certame coronario. Anche con questa iniziativa l’Autore, studioso della lingua e dello stile, aprì la questione di una letteratura volgare che gareggiasse con la classica, tornando a Dante e Boccaccio.

Trattato di Leon Battista Alberti

Alla formazione ed esperienza letteraria dell’Alberti è strettamente connessa la sua attività artistica e tecnica, per la quale ebbe decisiva importanza il suo soggiorno a Roma, durante il quale egli prese a studiarne le rovine antiche, misurandole secondo il metodo appreso dal Brunelleschi, ma apprezzandole soprattutto da un punto di vista umanistico, alla luce della sua vasta conoscenza letteraria. Il risultato più importante di questo metodo fu il trattato in lingua latina Descriptio urbis Romae. A Roma si dedicò alla direzione di importanti lavori di restauro, a cominciare dall’acquedotto dell’Acqua Vergine, di Ponte Molle e della stessa basilica di S. Pietro. Nel trattato Ludi mathematici tentava la soluzione d’importanti problemi e la descrizione dei vari strumenti da lui inventati o perfezionati: dall'”equilibra”, o livella a pendolo, all'”odometro”, o compasso itinerario, alla “bolide albertiana”, per sondare la profondità del mare, anticipando in questa attività lo stesso Leonardo da Vinci. Venuto a Firenze, egli si accorse del nuovo clima culturale e artistico, ovvero quell’arte nuova rappresentata da innovatori come Brunelleschi, Donatello, Masaccio, Paolo Uccello. Di qui il trattato De pictura del 1435, da lui composto in latino e poi tradotto in volgare e dedicato al Brunelleschi, suo amico già da alcuni anni. Dello stesso periodo è anche il trattato De statua. Il De pictura può dirsi la teorizzazione della concezione dell’arte del primo Rinascimento fiorentino, per cui essa non è più imitazione naturale ma conoscenza della natura, fondata sul nuovo concetto della prospettiva raggiunta scientificamente. L’entusiasmo per l’arte fiorentina va poi attenuandosi col ritorno a Roma, dove riprende il sopravvento per la classicità. Sono gli anni della presa d’atto della supremazia della classicità e del contributo insostituibile alla elaborazione di uno stile moderno della grande tradizione latina e romana. Su questa linea, nel 1452 compone il trattato latino De re aedificatoria, completato dall’opuscolo sui Cinque ordini architettonici, dove appare chiara la dipendenza dall’insegnamento di Vitruvio. Un’altra importante novità introdotta nella “pratica” dell’architettura, riguarda il fatto che egli non diresse mai di persona l’esecuzione dei suoi progetti, interessandosi soprattutto alla loro ideazione e lasciando alle maestranze il compito dell’esecuzione e ai maestri dell’arte muraria e della lavorazione delle pietra il compito del completamento e della verifica. Lo dimostra il suo comportamento nel 1443, allorquando si limitava a dare consigli per la costruzione del campanile del Duomo di Ferrara e per l'”Arco del Cavallo” nel monumento a Nicolò III d’Este.

Accettato l’incarico di Sigismondo Pandolfo Malatesta di ampliare e arricchire con un grande rivestimento marmoreo l’esterno della chiesa di S. Francesco a Rimini, il celebre Tempio malatestiano. Egli elaborò a Roma un progetto che si conosce attraverso la celebre medaglia del 1450 di Matteo de’ Pasti. Costruita nel secolo XIII, S. Francesco era stata trasformata all’interno, a partire dal 1447, da Matteo de’ Pasti. L’Alberti non tenne conto dell’interno, e impresse all’esterno un poderoso senso di romanità: nella facciata tre grandi archi, ispirati a quello d’Augusto in Rimini stessa, e le colonne sorgenti da un alto stilobate; in vetta, un’ampia nicchia; in ciascun fianco, sempre sullo stilobate, una vigorosa serie di nicchie: l’insieme conferisce solidità e nello stesso tempo dinamismo al complesso monumentale, facendone uno dei capolavori del primo Rinascimento. Il monumento rimase incompiuto; tra l’altro la parte alta della facciata non fu condotta a termine e la cupola che doveva sorgere all’incrocio del transetto con la navata e che ne sarebbe stata il tratto saliente, non fu mai eseguita. Nelle chiese di S. Sebastiano, le cui prime idee risalgono al 1460 circa, e di S. Andrea di Mantova, indicato attorno al 1470 – progettate da quando il grande umanista divenne consigliere, in materia d’architettura, di Ludovico Gonzaga – l’Alberti può sviluppare unitariamente esterno e interno: nella prima chiesa, a croce greca, il rapporto dei volumi interni sarà esemplare per il tipo della chiesa a pianta centrale, alla maniera che sarà di Bramante; nella seconda, costituita da una grande navata coperta da volta a botte, con cappelle laterali, innovando nella tradizionale forma basilicale, egli dà il maggior contributo alla soluzione di quel tipo di chiesa che diverrà poi usuale nella seconda metà del sec. XVI.

A Firenze Leon Battista Alberti, con il palazzo e la loggia Rucellai, la cappella del S. Sepolcro nella chiesa di S. Pancrazio, e la facciata della chiesa di S. Maria Novella, aveva intanto dati altrettanti esempi importantissimi della sua personale visione architettonica. Il rinnovamento portato nel palazzo Rucellai, risalente agli anni 1447-51 circa, che deriva direttamente dallo studio dei monumenti romani, è profondo: i pilastrini dividono per la prima volta la fronte di una casa fiorentina in pause regolari, chiudendo nei loro intervalli le finestre dei piani superiori, vaste, maestose. Con caratteri assolutamente nuovi si presenta il tempietto del S. Sepolcro, di forma rettangolare, tutto rivestito di marmo, con pilastri scanalati e capitelli corinzi. Per la facciata di S. Maria Novella nel periodo 1455-1570, rimasta incompiuta e decorata nella parte inferiore in schietto stile romanico fiorentino della fine secolo XIII, ideò la parte superiore, ricollegandovi l’inferiore, cui aggiunse il portale. Chiuse l’ordine inferiore tra due robusti pilastri che ripeté ai lati del portale; vi posò sopra un ricco cornicione e su questo innalzò l’attico, di struttura assai originale, fiancheggiato da due volute e sormontato da un timpano triangolare. Nella “rotonda” dell’Annunziata egli sviluppa ancora il tema della costruzione longitudinale terminata da una struttura a pianta centrale.

Dilungarsi su questi aspetti della figura di Leon Battista Alberti non è esercizio trascurabile, in quanto il suo magistero è stato fondamentale nel consolidamento dello spirito umanistico nelle arti e nel passaggio al successivo Rinascimento. Sicuramente Leonardo non deve essere stato insensibile agli argomenti trattati da Flavio Biondo ed è plausibile che ne sia venuta a conoscenza nel corso dei suoi due soggiorni romani. Ma più ancora deve essere stata la suggestione dell’opera di Leon Battista Alberti. E prima ancora un ruolo deve averlo svolto l’opera di Vitruvio. Nell’elenco dei circa duecento libri posseduti da Leonardo non mancava la Historia naturalis di Plinio il Vecchio, ma per quanto riguarda la conoscenza dell’architettura classica il riferimento al trattato De architectura di Marco Vitruvio Pollione deve essere considerato imprescindibile.

La vita di Vitruvio è avvolta nel mistero. Non è sicura l’età in cui visse; il riferimento più accreditato è quello dell’età di Augusto, ma si è pensato anche all’età di Tito o addirittura al IV secolo. La sua celebrità è stata indiscutibile nell’epoca romana, soprattutto come architetto militare e ingegnere di idraulica, due materia congeniali all’impegno di Leonardo quindici secoli dopo.

Grande importanza ha il trattato vitruviano per gli studi di archeologia e di storia dell’arte antica. Anche se rimane incerta la determinazione delle fonti greche, come Piteo, Ermodoro, Metrodoro, e non si può precisare se Vitruvio vi abbia attinto direttamente o, com’è più probabile, mediatamente manuali e riassunti in latino, l’opera rimane comunque preziosa, non solo per quello che riguarda gli ordini architettonici greci, la menzione di architetti e di edifici della Grecia, ma anche per tutta una serie di trattazioni pertinenti all’ambiente romano. L’impianto dei fori e degli edifici pubblici circostanti nelle città romane, la costruzione delle basiliche, delle terme, dei teatri, dei portici, delle palestre, dei porti e delle case, trovano interessanti esemplificazioni e precisazioni proprio in Vitruvio. Riguardo alla storia della decorazione pittorica parietale, fondamentale è il passo che illustra la successione dei vari stili decorativi, e significative le critiche alla moda delle decorazioni architettoniche fantasiose e astratte tipiche del suo tempo. Preziose le notizie sui materiali costruttivi e sulla tecnica dei muri, degli intonaci, degli stucchi, dei pavimenti, dei mosaici, sull’uso dei colori, oltre a molte altre di carattere antiquario. A Vitruvio si deve inoltre riconoscere il merito di aver tramandato alla cultura latina molte scoperte e invenzioni della meccanica ellenistica. Grande attenzione fu dedicata alla sua opera in età imperiale e occasionalmente durante il Medioevo, mentre nel Rinascimento l’influenza fu costante, a cominciare da Leon Battista Alberti. L’editio princeps dell’opera risale al 1486 e fu curata da Giovanni Sulpizio da Veroli. Seguirono le edizioni fiorentina nel 1496 e veneta nel 1497 e quelle, di grande successo, curate da fra Giocondo nel 1511, ristampate nel 1513, 1522 e 1523, da Cesare Cesariano nel 1521, da Giovan Battista Caporali nel 1536 e da Daniele Barbaro nel 1556, ristampata nel 1567, 1584 e 1629, accanto alle pere di Trissino e Palladio. Importanti anche le edizioni francesi di J. Goujon nel 1547 e di C. Perrault nel 1673.

Busto di Vitruvio

CONCLUSIONE

Leonardo da Vinci non poteva essere estraneo a questa scuola di classicità e di romanità. L’uomo vitruviano, come ricerca della perfezione delle forme umane nello spazio, è la più alta testimonianza della sua maturità. Allo studio si aggiunse la conoscenza dal vivo del mondo antico, con la visita ai luoghi più significativi della gloria classica, a cominciare da Roma. Il contatto con le vestigia dell’antica Roma deve avere accentuato il suo interesse per l’architettura, al pari della conoscenza ulteriore del mondo classico, grazie anche allo studio del latino, praticato con applicazione scolastica. Di conseguenza, dopo la visita al Mausoleo di Adriano, divenuta fortezza e carcere pontificio, la visita delle grandiose rovine di Villa Adriana non potevano che completare la sua sete di conoscenza. A quel tempo i letterati e gli artisti che si trovavano a Roma per una ragione o l’altra, sentivano il bisogno di recarsi a vedere con il proprio occhi i luoghi favolosi dove Quintilio Vario, Mecenate, Orazio Bleso avevano costruito le proprie villae, dimore meravigliose per l’otium. Nel Medio evo sarebbero sorte abitazioni di notevole fattura gotica e un duomo di profondo fascino, accanto a chiese ugualmente ben strutturate. Enea Silvio Piccolomini aveva edificato in poco meno di un anno una fortezza per controllare la riottosa comunità tiburtina dopo l’annessione alla Camera Apostolica, che ancora oggi svetta al centro della città nota con il nome di Rocca Pia e che Leonardo avrà sicuramente ammirato per la sua imponenza. Da lì a qualche decennio Ippolito II d’Este avrebbe dato inizio ai lavori di costruzione della villa, affidandone i lavori a Pirro Ligorio, altro grande architetto archeologo. Sarebbe diventata Villa d’Este, gloria e vanto della famiglia estense, supremo lascito del Rinascimento italiano.

Per questo, concludendo la presente nota, è bello pensare che Leonardo abbia potuto godere per qualche ora del fascino di questa città antichissima, le cui origini affondano nel mito della Sibilla Albunea, misteriosa creatura delle acque e delle rocce, da cui prenderà forma la Sibilla Tiburtina immortalata da Michelangelo nella volta della Sistina e tanti altri grandi artisti dei secoli successivi. Anche perché, come afferma Jacob Burkhardt, «L’immensità dell’ingegno di Leonardo non si potrà mai che presentir da lontano».[11]

Leonardo da Vinci, L’uomo vitruviano

Agostino Bagnato

Roma, maggio 2019 

BIBLIOGRAFIA PRINCIPALE

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Chastel André                                      Leonardo da Vinci, studi e ricerche (a cura di Giancarlo Coccioli), Einaudi, Torino 1955

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                                                     Scritti letterari (a cura di Augusto Marinoni). Nuova edizione accresciuta con i manoscritti di Madrid, Rizzoli, Milano 1987

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Pomilio Mario                               Leonardo, Skira, Milano 2003

Vasari Giorgio                              Vita di Leonardo (a cura di Marco Tabarrini), Newton Compton, Roma 1996

Zöllner Frank                                Leonardo, Taschen, Köln 2002

[1] Marion Johnson, Casa Borgia, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 130-131. Zenobia, a cui fa riferimento il cronista rinascimentale, era regina degli Assiri e a Palmira era stata catturata dall’imperatore Adriano e condotta a Roma, dove aveva preso parte alla sfilata trionfale del vincitore nel Foro romano. In seguito, Zenobia fu esiliata a Tivoli, dove trascorse il resto della sua esistenza in regime di quasi libertà.

[2] Serge Bramly, Leonardo da Vinci, Fabbri editore, Milano 2000, pp. 252-253

[3] S. Bramly, op. cit., p. 261

[4] Mario Cermenati, Leonardo a Roma, in «Nuova Antologia», Roma 1919, pp. 308-331

[5] Mario Pomilio, Leonardo, Skira editore, Milano 2003, pag 58. Il catalogo comprende anche un’appendice di Lucia Aquino, dal titolo La vita e l’arte. I capolavori.

[6] M. Pomilio, op. cit., pag. 58

[7] Enea Silvio Piccolomini, I Commentarii, 2 voll., Adelphi editore, Milano 2008. Vol. I, pp. 985-987. Il testo latino è un esempio magistrale della capacità di scrittura del pontefice Pio II. I Commentarii sono stati scritti quando Enea Silvio Piccolomini era stato eletto papa.

[8] I Commentarii sono stati copiati, appena terminati di scrivere nella primavera del 1464, dall’amanuense di fiducia del pontefice, il tedesco Giovanni Gobellino. Si tratta di uno splendido codice completato il 12 giugno 1464 , due mesi prima che Pio II cessasse di vivere ad Ancona il 15 agosto. Sono circolate diverse edizioni basate sul codice originale, ma la prima stampa risale al 1584 e una seconda aggiornata al 1614 con evidenti alterazioni che rendono inaccettabili queste due edizioni. Bisogna attendere l’anno 1883 per avere una edizione comprendente i tagli e le modifiche operate dal nipote del pontefice, Bandini Piccolomini. La prima edizione completa, a carattere scientifico, risale al 1984.

[9] Jules Gourdault, Roma e la Campagna romana, Meravigli editrice, Vimercate 1994, pp. 147 e ss. Si tratta della traduzione moderna da parte della casa editrice Meravigli dell’edizione francese del 1885. E’ una testimonianza importante perché dal XVI secolo all’Ottocento, non si erano verificati forti mutament nella struttura terrioriale.

[10] Le biografie di Flavio Biondo, Leon Battista Alberti e Vitruvio sono desunte da Wikipedia, al pari della indicazione delle opere principali. Le informazioni ricavate dalla rete, opportunamente riviste per ragioni di uniformità nella scrittura dell’intero testo, sono state verificate sulla bibliografia annotata al termine del saggio e su altri testi di storia, di storia della letteratura e di storia dell’arte.

[11] Jacob Burkhardt, Civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni editore, Firenze 1984. Vedi il capitolo “Lo svolgimento dell’individualità”, dedicato all’analisi sulle origini e la formazione dell’individualità nel crogiolo degli studi umanistici e del superamento dell’aristotelismo.