MAKSIM GOR’KIJ E L’AUTOBIOGRAFIA COME VIAGGIO ATTRAVERSO LA RUSSIA

Agostino Bagnato

Alcuni giorni dopo il funerale

della mamma, il nonno mi disse:

- Caro Leksej, non sei una medaglia

che deve starmi attaccata al collo;

qui non c’è posto per te, va’ tra la gente…

E io andai tra la gente.Maksim Gor’kij[1]

Il’ja Repin,  Battellieri del Volga, 1870, Museo Statale Russo, S. Pietroburgo

Dopo i grandi successi della narrativa creata durante la permanenza a Capri, Gor’kij sentì la necessità di tornare sulla sua esperienza giovanile, proprio per rafforzare il carattere autobiografico della propria vastissima opera.

Che Gor’kij, al contrario dei critici, si rifacesse spesso a quella sua prima attività, è provato dal fatto che, quando, ormai vessillifero della teoria del realismo socialista, egli cercò di spiegarne l’essenza, non poté fare a meno di risalire al colorito romantico dei suoi primi racconti. Nell’attività di Gor’kij giovane, che comprese racconti di vario genere, quelli dedicati al mondo dei vagabondi e degli «ex uomini» sono i più significativi. Occorre notare che se nell’espressione «ex uomini» è abbastanza esattamente ridato il senso di quella russa «byvšie ljudi», con quelle di vagabondi si è lontani dal rendere quelle varie espressioni usate da Gor’kij per indicare i suoi eroi e che vanno dalle sfumature di coloro che camminano scalzi a quelle di avventurieri e di bricconi, tutti accomunati dallo spirito di vagabondaggio»[2].

La società russa, dopo l’abolizione della servitù della gleba e la nascita delle prime attività industriali, era permeata da quel vasto movimento sociale e culturale che andava da «Narodnaja volja» alle forme più estreme di nichilismo. Il movimento dei «Bosjaki» (Vagabondi) era una tendenza culturale oltre che sociale, una sorta di costume che riuniva il carattere della protesta con la ricerca della propria libertà e personalità, avendo al centro un individualismo esasperato che risaliva a influenze filosofiche occidentali, da Schopenhauer a Nietzsche. Ma in Gor’kij c’era una ragione in più, ovvero la presa di coscienza sulla necessità di cambiare la società russa, sulla insostenibilità dell’organizzazione politica ed economica del Paese, sulla incapacità di riformare il regime zarista dall’interno. Per questo era necessario conquistare larghi strati dei lavoratori alla causa rivoluzionaria, una strada per potere modificare il destino della Rus’. In Gor’kij questo stato d’animo e tale consapevolezza non è sbocciato all’improvviso, ma è maturato nel corso della sua giovinezza, nel lungo processo formativo, in quel girovagare lungo le città i villaggi e le campagna del Volga fino al mar Caspio e ai confini della Turchia e della Persia. Quelle esperienze avrebbero rappresentato la sua scuola, quella che egli chiamò Moi universitety (Le mie università), la terza parte della sua autobiografia, dopo Detstvo (Infanzia) e V ljudach (Tra le gente).

Il racconto delle spaventose condizioni di arretratezza della Russia e delle miserie materiali e morali di tanta parte del popolo, doveva avvenire in prima persona, doveva essere sangue e carne dell’autore, bisognava che s’imprimesse nella memoria come testimonianza a fuoco. Non che i memorabili racconti della giovinezza e i romanzi che lo avevano reso celebre, nonché i drammi teatrali che riempivano le platee di tutto il mondo, non avessero quel carattere di sincerità e di verità che era, in definitiva, la forza della narrativa di Gor’kij, ma egli aveva bisogno di dimostrare a se stesso che era stata proprio la sua esperienza giovanile a offrirgli quella forza dirompente di protesta e di verità.

Così la critica è stata pressoché unanime nel riconoscere genuinità e freschezza alla trilogia autobiografica. Salvo qualche voce discorde, a distanza di oltre un secolo dall’apparizione dei tre volumi, la critica letteraria riconosce allo scrittore il giusto merito della sua opera. Anche in Italia l’autobiografia ha incontrato un notevole successo di pubblico e di critica, se si tiene conto che la traduzione e la diffusione sono avvenute soltanto nel secondo dopoguerra, quando Maksim Gor’kij era scomparso da oltre dieci anni.

Per conoscere la Russia, il lettore occidentale è abituato alla lettura di Puškin, Gogol’ e Lermontov e Turgeneev per il periodo romantico, allo studio di Tolstoj e Dostoevkij per la ricostruzione dell’identità russa, alla conoscenza di Ostrovskij, Gončarov, Leskov e Saltykov-Ščedrin per la lunga fase del realismo nelle sue differenti accezioni, di Korolenko, Čechov e Kuprin per il passaggio alla generazione anticipatrice del Novecento. Una traccia particolare ha lasciato il simbolismo, senza tuttavia incidere nella formazione di una nuova dimensione letteraria. Ma la lettura di Gor’kij per molti aspetti completa la conoscenza della realtà della Russia nelle sue differenti dimensioni territoriali. Mancano gli affreschi sulle grandi città, perché egli predilige la Russia che conosce meglio, quella delle città mercantili e artigianali, dei villaggi lungo il Volga, il Don e l’Oka, delle campagne e della steppa abitate da popolazioni di origine tatara, turca, persiana, calmucca e asiatica. Un mondo che ancora oggi è in gran parte sconosciuto agli occidentali.

Le opere di Gor’kij che sono più note in Italia e in Occidente sono quelle legate alle lotte operaie nella crescente industria russa e alla battaglia per migliorare le condizioni di vita e di lavoro degli abitanti delle città grandi e piccole dell’immenso impero zarista. A cominciare dal romanzo Mat’ (La madre), fino alle grandi opere della piena maturità, come Delo Artomonovy (L’affare degli Artomonov) e Žizn’ Klima Samgina (La vita di Klim Samgin).

Ma egli è ancora oggi visto come il principale protagonista della politica culturale sotto la dittatura di Stalin, ovvero quel realismo socialista che prese ufficialmente il via con il primo congresso dell’Unione degli Scrittori dell’URSS nel 1934, di cui è stato eletto presidente. Anche se poco tempo dopo lo scrittore cessava di vivere e quindi non ha potuto imprimere direttamente quel carattere negativo sulla letteratura e più in generale sulla cultura russa e sovietica che il movimento ha avuto, Maksim Gor’kij è percepito quasi come responsabile di gran parte di quello che è successo. Dopo la destalinizzazione, ma soprattutto dopo il crollo del regime comunista, lo scrittore è stato accusato di comportamenti scorretti nei confronti di numerosi scrittori del tempo. Aleksandr Solženicyn lo descrisse in Arkipelag Gulag (Arcipelago Gulag) come indifferente alle condizioni dei deportati nelle isole Solovki che visitava nel mese di giugno 1928 accompagnando un delegazione straniera, pur sapendo che tra i deportati c’erano molti intellettuali. Nina Berberova arrivò a scrivere che Gor’kij, frequentando a Mosca l’abitazione di Osip e Lilja Brik, avrebbe diffuso la falsa voce che Vladimir Majakoskij era affetto da sifilide, pur di denigrare il poeta che lo aveva quasi costretto a rientrare da Sorrento con il celebre appello pubblicato sulla rivista «Novyj Lef» del gennaio 1927.

Purtroppo, la politica culturale della Russia post comunista ha pressoché cancellato Maksim Gor’kij dallo scenario degli studi e delle ricerche; di conseguenza, anche sul piano editoriale non ci sono importanti iniziative che valorizzino l’opera dello scrittore di Nižnij Novgorod.

In Italia non ci sono state sostanziali novità sul piano della diffusione delle opere gor’kiane, dopo la monumentale edizione delle opere complete negli anni Sessanta, da parte di Editori Riuniti, a cura di Ignazio Ambrogio. Tuttavia, bisogna riconoscere che a Capri, Sorrento e Napoli non sono mai cessate le iniziative per ricordare i soggiorni dello scrittore. Ultimamente si è assistito a un risveglio dell’attenzione per Gor’kij, alla luce di alcune indagini legate ai due soggiorni di Vladimir Il’ič Lenin a Capri nel 1908 e nel 1910, nonché alla scuola di marxismo tenuta sull’isola e alla biblioteca russa.

Da ultimo, nel 2012, il documentario cinematografico L’altra rivoluzione prodotto dalla RAI, potendo contare su documenti inediti e su filmati sconosciuti, ha offerto un ritratto veramente interessante dello scrittore.

LE CITTA’ DI GOR’KIJ

Il Volga 

Ogni città presenta una storia sé, stante la complessità del territorio e della sua storia. Percorrerne il profilo, anche se per grandi linee, può essere utile per comprendere il carattere della formazione ottenuta da Maksim Gor’kij, in quanto sono proprio quelle città e le sue popolazioni che hanno rappresentato le [Moi] Universitety (mie) università della sua vita.Per apprezzare e conoscere il più possibilmente a fondo l’autobiografia di Maksim Gor’kij è opportuno avere qualche informazione sulle città che sono il principale teatro delle vicende e dei protagonisti. Tra queste, bisogna partire dalla città natale, Nižnij Novgorod. Seguono le città lungo il corso del fiume Volga, come Kazan’, Simbirsk, Samara, Caricyn (Stalingrado – Volgogrado), Astrachan. Si tratta di un percorso geografico e storico che è tanta parte della Russia, per la natura del suolo e della campagna, sia per le popolazioni che vi si sono insediate nel corso dei secoli, provenienti dal sud e dall’oriente, oltre a quelli che sono giunti su chiamata delle autorità zariste. C’è dunque un incrocio di culture, abitudini, religioni, modi di pensare e di fare, attitudini e interessi spesso contrastanti, ma che lo scorrere del tempo è riuscito ad intrecciare e ad armonizzare. Si pensi che anticamente le popolazioni erano di origine bulgara e cosacca, stemperandosi poi con «demos» provenienti dalla Cina e dalla Mongolia, fino alle tribù erranti dei deserti asiatici e delle montagne caucasiche e delle vallate persiane. I tedeschi giunsero nel Settecento chiamati da Caterina II e dettero vita al numeroso gruppo dei Tedeschi del Volga, ancora oggi attivi e partecipi della vita civile, culturale, economica dell’intera regione del Tatarstan, una delle più ricche «gubernja» (Governatorato) della Russia.

Quel vastissimo territorio è un incrocio di razze, etnie, lingue, costumi, tradizioni, religioni. Basti pensare alla coabitazione che si è avuta tra cristiani ortodossi, ebrei, musulmani, «molokany» (bovitori di latte), buddisti, zoroastristi, animisti. Ogni popolazione portava con sé e alimentava il proprio mondo favolistico e fantastico, di cui la figura della nonna Akulina Ivanovna è la depositaria e che trasmetterà in gran parte all’avido nipote che ne farà tesoro nella sua vita artistica. E grandissima è stata la riconoscenza di Aleksej se, in alcune opere, alcune figure femminili prenderanno proprio il nome di Akulina Ivanovna, come nel dramma Na dne (Bossifondi). Oncora oggi l’incrocio e la contaminazione tra cultura russa, ebraica, tatara, caucasica, cinese, uzbeka, persiana, turkmena, armena, georgiana sono alla base della narrativa e della musica popolare e rappresentano un patrimonio per tutti i popoli del Volga.

Gor’kij si avvia verso quella esperienza dopo l’allontanamento definitivo dai luoghi natali, in seguito alla morte della nonna Akulina Ivanovna.

Negli accigliati giorni d’autunno, quando il sole non si vede e non si sente e ci si dimentica di lui, più di una volta mi è capitato di errare per il bosco. Ti smarrisci, perdi tuti i sentieri, e infine, stanco di cercarli, stringi i denti e vai, dritto nel più folto, per la ramaglia imputridita e le zolle malsicure della palude; ma alla fine esci sempre sulla strada!

Così decisi di fare.

Nell’autunno di quell’anno partii per Kazan’, con la segreta speranza di potermici stabilire, per studiare, forse. (Autobiografia, Tra la gente, p. 578)

Ma tutto aveva avuto inizio a Nižnij Novgorod e nella sua città ritorna ogni volta che le difficoltà lo assaltano, lo opprimono, lo conducono a tentare il suicidio nel 1887, ma trova sempre la forza di rimettersi in cammino.

NIŽNIJ NOVGOROD

Stalingrado, monumento ai caduti

Nižnij Novgorod (Citta nuova bassa) si trova sulla riva sinistra del Volga, quasi alla confluenza del fiume Oka. E’ una città antichissima e prende il nome dall’altra città medievale che si trova quasi alle sorgenti del fiume Volga, sulle colline Valdaj.

Nižnij Vovgorod fu fondata nel 1221 dal principe Jurij II di Vladimir che intendeva consolidare il potere del nuovo principato, staccandosi dal Granducato di Kiev. La fortezza, denominata Kreml’, Cremlino, dominava il fiume e quindi controllava il traffico fluviale con i territori a nord-ovest e soprattutto con le vaste pianure tra Novgorod che recentemente ha assunto il nome di Velikij Novgorod (Novgorod la Grande), Tver’ e Mosca e con quelli appartenenti al Granducato di Kiev. L’antica Novgorod costituiva l’unico esempio di repubblica oligarchica in tutto il medio evo, sul modello della pólis greca, al cui vertice sedeva l’arcivescovo con funzioni di rappresentanza, mentre il potere effettivo era nelle mani degli anziani delle famiglie di mercanti e artigiani che intrattenevano rapporti con la Lega anseatica (Hansa) e costituivano un baluardo allo strapotere dei Cavalieri Teutonici, il potente ordine militare che esercitava un ruolo di vera e propria potenza politica.

Nel 1264 Nižnij Novgorod entrò a far parte del Principato di Vladimir-Suzdal’, assumendo un ruolo sempre più strategico sul piano commerciale. Dopo l’occupazione mongola che risparmiò la città perché ritenuta poco importante, nei duri anni della lotta per la liberazione del dominio tataro, la città consolidò il proprio potere economico, richiamando mercanti e artigiani in numero sempre più numeroso. Nel 1350 divenne la sede del principato di Suzdal’, soppiantando Gorodec come città strategica, con il consenso dell’Orda d’oro, ovvero il potere degli occupanti tatari. Dopo la cacciata definitiva degli invasori, furono costruiti il Cremlino in pietra, numerosi palazzi, il «Gostinyj dvor» (mercato)   e le cattedrali ancora oggi esistenti.

Nella città di Nižnij Novgorod, a riprova della sua crescente importanza, nel 1377 fu scritta la celebre Povest’ vremennych let (Cronaca degli anni passati), da parte del monaco Lavrentj, uno dei testi più importanti della nascente lingua russa scritta e della letteratura di quel paese. Nel frattempo il Granducato di Mosca prendeva il sopravvento su Vladimir e Suzdal’ e anche la città sul Volga fu inglobata nel nuovo potente stato. I boiardi Šujckij s’insediarono così a Mosca e riuscirono a far assumere il potere al principe Vasilij (1552-1612), che nel 1606 divenne zar con il nome di Vasilij IV, in seguito ai torbidi legati al falso Dmitrij, governando fino al 1601. Dopo la distruzione del 1408 da parte dei tatari e la creazione del Khanato di Kazan’, iniziò la lunga lotta per la liberazione, avvenuta circa un secolo dopo. Tra il 1508 e il 1511 fu costruito il Cremlino in mattoni rossi, alla stessa stregua di quello di Mosca, da parte del capomastro Pëtr detto Pietro l’Italiano per le sue origini, completato nel 1520. La strada per la conquista delle terre al di là del Volga verso i monti Urali e ancora oltre, verso la sconosciuta Siberia, era aperta. Così cominciò l’ascesa dell’intraprendente famiglia di mercanti Stroganov, il cui capostipite Anika (1498-1570) avviò un fiorente commercio del sale, della pesca, delle pellicce e del legname con i territori settentrionali della Russia già entrati nell’orbita del potere moscovita.

Nel 1612 il principe Dmitrij Požarkij e il mercante Kuz’ma Minin organizzarono proprio a Nižnij Novgorod l’esercito di volontari per liberare Mosca dall’occupazione polacca, avvenuta in seguito alla morte dello zar Boris Godunov e allo «Smutnoe vremja» (Tempo dei torbidi), come fu chiamato quel terribile periodo di intrighi, sconfitte e devastazioni. L’anno successivo sarebbe salito al trono il giovanissimo zar Michail Fëdorovič Romanov, dinastia durata fino alla Rivoluzione d’ottobre ed estintasi con l’uccisione dello zar Nicola II e della sua famiglia il 17 luglio 1918. La città si espande con le crescenti attività minerarie e industriali verso gli immensi territori degli Urali e in particolare verso gli sterminati spazi della Siberia, in gran parte ancora inesplorati. Nel 1817 Nižnij Novgorod è un fiorente centro commerciale che va ulteriormente accrescendo la propria importanza. Dopo l’abolizione della servitù della gleba (Krepostničestvo) nel 1861, introdotta dallo zar Boris Godunov nel 1601, regolamentata da Pietro il Grande nel 1727 e resa molto pesante dalla zarina Caterina II, la città aumentò la popolazione che si riversava dalle campagne in cerca di fortuna, come in tutte le città della Russia ancora profondamente feudale. Con i mercanti e gli artigiani, aumentarono anche i disperati, gli emarginati, i vagabondi, quel vasto mondo che caratterizzerà l’impegno politico e sociale del movimento «Narodnaja volja» (La volontà popolare, ma anche la libertà del popolo), i cui membri chiamati «narodniki» (populisti) apriranno le porte alla nascita del movimento socialista verso la fine del XIX secolo.

Nel 1896, a riprova della riconosciuta funzione commerciale della città, si è tenuta l’Esposizione Universale.

A Nižnij Novgorod il 27 marzo 1868 nacque Aleksej Maksimovič Peškov. La madre Varvara Kaširina era figlia di un artigiano benestante, capo della corporazione dei tintori; il padre Maksim Peškov era commerciante. L’infanzia del futuro scrittore trascorse tra mille difficoltà in casa dei nonni materni, dopo la morte del padre e l’abbandono della casa da parte della madre, a causa della ostilità dei fratelli e le successive nozze con un funzionario statale. Il nome fu cambiato in Maksim Gor’kij (Massimo l’amaro) nel 1892, in occasione della pubblicazione del primo racconto Makar Čudra, divenendo subito noto in Russia e poi nel mondo.

Nel 1932 la città di Nižnij Novgorod venne chiamata Gor’kij in onore dello scrittore che era rientrato in Russia dopo il secondo lungo soggiorno in Italia e precisamente a Sorrento. Si spense a Mosca il 18 giugno 1936 in seguito all’aggravamento della condizioni di salute che soltanto il clima favorevole della costiera sorrentina riusciva a tenere sotto controllo. Si parlò anche di avvelenamento per eliminare un testimone ingombrante del terrore staliniano, ma non sono state trovate prove di nessun genere negli archivi d stato e in quelli di partito dopo la morte di Stalin e soprattutto dopo la caduta del comunismo.

La città divenne importante centro industriale e una sede strategica della ricerca scientifica e militare. Lo scienziato Andrej Dmitrievič Sacharov, uno dei costruttori della bomba nucleare sovietica, a causa delle proprie opinioni politiche contrarie al regime comunista, venne esiliato proprio a Gor’kij e la città subì, anche per la pubblicità negativa legata alla presenza dello scienziato dissidente, un lungo isolamento.

Alla caduta del regime comunista assunse l’antico nome e il centro storico riacquisto le caratteristiche tradizionali. Il monumento allo scrittore testimonia il legame con la terra d’origine.

Lungo il Volga sono fiorite molte canzoni popolari, a partire dalla celebre I battellieri del Volga, composta dal musicista Aleksandr Glazunov nel 1873, cantata anche dal basso Fëdor Šaljapin e diffuso su disco d’ardesia dopo la comparsa del grammofono con il titolo Ej, uchnie. I battellieri, Burlaki in russo, sono stati oggetto di uno dei dipinti più famosi di Il’ja Repin, capolavoro del realismo sociale. Il oro dell’Armata Rossa, nel secondo dopoguerra, ha fatto conoscere questa canzone popolare in tutto il mondo. Un altro canto popolare è quella che contiene un ritornello molto celebre:

Vesna Volga razol’etsja, / Volga matuška-reka, / a serdečusku zab’etsja, / zalivaet berega…

La primavera ridesta il Volga, / il Volga madre fiume, / e dolcemente si allontana / inonda la riva…

Ma anche Nižnij Novgorod non è da meno, con il canto diffuso in tutta la Russia:

Vniz po Volge-reke, / s Nižnja-Novgoroda, / snarjažen stružok, / kak strela, letit…

Scende lungo il fiume Volga, / arricchito da sbuffi d’acqua, / come una freccia, vola…

KAZAN’

Stalingrado, Collina di Makaj

La città di Kazanè la capitale della Repubblica dei Tatari (Tatarstan). Sorge sulla sponda sinistra del Volga, ovvero sulla sponda occidentale dell’immenso fiume ed è il più importante porto con Jaroslavl’ a nord e Astrachan a sud. Rappresenta lo sbocco commerciale del ricco Tatarstan, uno dei territori più sviluppati della Federazione Russa, grazie soprattutto alla produzione e alla raffinazione del petrolio. Kazan è anche un importante centro culturale e universitario, dove studiò anche Lev Tolstoj negli anni Quaranta del XIX secolo. Nel corso del tempo si è affermata l’industria manifatturiera e quella dei materiali da costruzione e del legno.
La città odierna fu fondata in luogo elevato nel 1437, a circa 50 chilometri più a nord dell’antica Kazan’, alla confluenza del fiume Kazanka, affulente del Volga. Attorno al 1440, la città divenne capitale del regno omonimo per iniziativa del khan Ulu-Machmet, in seguito all’indebolimento dell’Orda d’oro sull’intera Russia occidentale, man mano che si affermava la potenza di Mosca e del suo granducato. La conclusione della piena conquista dei territori lungo il Volga da parte dei principi moscoviti, fu l’assedio della città nel 1552 da parte dello zar Ivan IV il Terribile che pose fine anche al regno di Kazan’. Si è trattato di un momento particolarmente importante per la storia della Russia, in quanto la strada per la totale conquista degli Urali e per l’apertura della conquista della immensa Siberia era aperta. Nel 1708 Pietro il Grande la nominò capoluogo del governatorato omonimo. Nel 1774 l’intera regione fu saccheggiata dal capo cosacco Emeljan Pugačëv e Kazan’ fu pressoché distrutta dai contadini ribelli al seguito del hataman. Ma Kazan’ era troppo importante per il controllo dell’intero territorio e fu ricostruita da Caterina II in tempi relativamente brevi.

La città ha perso le caratteristiche asiatiche di un tempo ed oggi presenta un aspetto moderno. Ma la zona tradizionale conserva le caratteristiche antiche e costituisce uno degli aspetti più caratteristici dell’architettura orientale. Dopo la conquista da parte di Ivan il Terribile, è stato costruita la grande fortezza che ha funzioni di cremlino, centro del potere e del governo locale, e rappresenta uno dei più importanti complessi monumentali dell’intera Russia. All’interno, verso la fine del XVI secolo, è stata eretta la grande cattedrale dell’Annunciazione. Nel 1579 fu rinvenuta sotto le rovine di un’abitazione, un’antica icona bizantina che il principe Dmitrij Michajlovic Požarskij portò con sé nelle battaglie vittoriose contro in polacchi, liberare Mosca e i territori occidentali dell’impero. E’ una delle icone più venerate della Russia ortodossa, al pari di quelle dette di Vladimir e di Smolensk. Nel 1918 l’icona fu trafugata durante il trasloco da Pietrogrado e Mosca e fu ritrovata in America molti anni dopo; acquistata dal metropolita di S. Francisco, fu donata a Giovanni Paolo II che nel 2004 la consegnò ad Alessio II, Patriarca di tutte le Russie. Le moschee danneggiate al momento della cacciata dei tatari sono state ricostruite e a Kazan si erge uno dei più imponenti templi del mondo islamico, con quattro minareti altissimi che svettano come missili sulla spianata del cremlino e si riflettono nelle acque del Volga. Di notevole valore architettonico sono la cattedrale dei SS. Pietro e Paolo del 1726, opera di un artista fiorentino; la torre Spasskaja del 1555, ovvero del Salvatore, che si eleva su quattro piani; la torre Sjumbeka della fine del XVII secolo, alta quasi ottanta metri; i neoclassici edifici dell’università, il teatro di arte drammatica e il teatro dell’opera, frequentati entrambi dal giovane Aleksej Maksimovič Peškov.

L’importanza culturale della città tatara è enorme, se si tiene conto che la monumentale Kazanskaja istorija (Storia di Kazan’) è una delle testimonianze più preziose per la ricostruzione della storia medievale russa. Lo stesso Ivan il Terribile compose il suo libro di preghiere Sto glavija (I cento capitoli9, ovvero preghiere) proprio nella città appena conqistata nel 1552.

A Kazan’ è nato il celebre ballerino Rudolf Nureev.

SIMBIRSK (UL’JANOVSK)

La città di Simbirsk è nota anche con il nome di Ul’janovsk, avendo dato nel 1870 i natali a Vladimir Il’ič Ul’janovsk, universalmente conosciuto con il nome di battaglia Nikolaj Lenin, divenuto poi Vladimir Il’ič Lenin. La città fu fondata lungo il fiume Volga nel 1648 dal boiardo Bogdan Chitrovo, la cui discendenza ha avuto un ruolo importante nella Russia zarista. La fortezza di Simbirsk, ovvero il locale Kreml’ (cremlino) fu strategicamente costruito su una collina sulla sponda occidentale del grande corso d’acqua e serviva per proteggere la frontiera orientale dell’Impero russo dalle tribù nomadi e ad istituire una presenza imperiale permanente nell’area.

Nel 1668 Simbirsk fu lungamente assediata da Sten’ka Razin a capo di un esercito di 20.000 cosacchi ribelli, insofferenti di rispondere alla autorità e alla disciplina imperiali. Sten’ka Razin divenne l’eroe popolare dei contadini russi e nella opere di Go’kij è spesso evocato. Sempre a Simbirsk l’altro celebre ribelle Emel’jan Pugačëv, che si era addirittura spacciato per lo zar, ottenendo un seguito numeroso di contadini, fu imprigionato prima dell’esecuzione. Il cremlino di Simbirsk, ancora in legno come tante altre fortezze a quel tempo, fu distrutto da un incendio nel corso del Settecento e ricostruito in pietra.

Siccome il confine orientale dell’Impero russo fu rapidamente spinto in Siberia, Simbirsk perse col tempo la sua importanza strategica, ma nondimeno cominciò a svilupparsi come centro regionale importante. A Simbirsk fu attribuito lo status di città nel 1796.

Nell’estate del 1864 Simbirsk fu gravemente danneggiata dal fuoco; comunque, la città fu rapidamente ricostruita e continuò a crescere. La Cattedrale della Santa Trinità fu costruita in stile Neoclassico tra il 1827 e il 1841. La popolazione di Simbirsk raggiunse le 26.000 unità nel 1856 e le 43.000 nel 1897.

Nel 1924 la città fu rinominata Ul’janovsk in onore di Vladimir Il’ič Ul’janov, universalmente conosciuto con il nome di Nikolaj Lenin assunto nella clandestinità, nacque a Simbirsk nel 1870 in una famiglia borghese. Anche altri due altri capi politici russi, Aleksandr Kerenskij e Aleksandr Protopopov, nacquero a Simbirsk.

La costruzione della centrale idroelettrica di Kuybyšev, completata nel 1957, provocò l’inondazione di vasti territori sia a nord che a sud di Ul’janovsk e un ampliamento in estensione del Volga che il alcuni posti ha raggiunto 35 chilometri, creando complessi problemi di regimazione delle acque e di controllo della sicurezza della città e di villaggi agricoli. Alcuni quartieri di Ul’janovsk rimangono ben al di sotto del livello del bacino, così come si è formato con la diga e sono protetti da un sistema di sbarramenti per controllare il deflusso delle acque; il cedimento delle barriere potrebbe provocare la sommersione di tali quartieri. Durante il periodo dei soviet Ul’janovsk fu un centro culturale e turistico importante, visitato da milioni di cittadini russi e dei paesi alleati.

SAMARA

Villaggi nei pressi di Samara

Alla fine dell’Ottocento, Samara era ancora una cittadina di pescatori, commercianti, artigiani, contadini che andava ingrandendosi sempre più a causa dello sviluppo conseguente l’afflusso incessante dalla campagne dopo l’abolizione della servitù della gleba. Non si hanno certezze sulla data della fondazione, ma nel 1357 Alessio metropolita di Kiev divenuto in seguito il patrono della città, visitò l’insediamento di pescatori e cacciatori di animali da pelliccia e predisse il suo sviluppo. L’area subì sicuramente una rapida crescita, se nel 1586 risulta sulla cartografia italiana dell’epoca come città di predoni e porto di pirati. Nel 1914 è stata creata una delle più importanti università lungo il Volga, mentre erano presenti istituti tecnici di vario tipo. Il grande teatro di prosa oggi è dedicato a Maksim Gor’kij. La città, tra il 1935 e il 1990 prese il nome di Kujbyšev, in onore del rivoluzionario sovietico Valerian Vladimirovič Kujbyšev. Durante la seconda guerra mondiale ospitò migliaia di sfollati dalle zone occupate, tra cui il musicista Dmitrij Šostakovič e lo scrittore Aleksej Tolstoj.

Nei pressi di Samara si trova la città di Togliattigrad, dove nel 1966 l’industria automobilistica italiana FIAT realizzò un grande impianto per la produzione della vettura Zigulì, divenuta poi Lada e Vaz, sul modello originario della 124 italiana, vetture ancora oggi molto popolari nella Russia ipermotorizzata.

Samara si trova nella parte centro-orientale della Russia europea, conosciuta come il Distretto Federale del Volga, nella confluenza tra i fiumi Volga e Samara. Essa è anche il capoluogo dell’omonima «oblast’» (Regione amministrativa). Nonostante un passato da città chiusa, oggi Samara è diventata importante per il suo rapido sviluppo sociale, politico, economico, industriale e culturale. Nel 2007 ha ospitato un vertice tra l’Unione Europea e la Russia, a testimonianza che il nuovo corso politico di Mosca tende a valorizzare anche i territori periferici.

La città è situata sulla riva sinistra del fiume Volga, che funge come suo confine per la parte occidentale. Il confine a nord è delimitato dalle colline Sokol’i e dalla steppa nella parte est e sud. La vita degli abitanti di Samara è sempre stata caratterizzata dalla presenza del fiume Volga, che non ha solamente offerto un’intensa attività commerciale verso le altre città della Russia, ma ha anche giocato un ruolo fondamentale per quanto riguarda il turismo, grazie all’ottimo colpo d’occhio offerto dal luogo. Il fiume Samara, infatti, è una delle mete preferite sia dagli abitanti della città che dai turisti. Durante una delle sue varie visite alla città, il romanziere sovietico Vasilij Aksënov affermò: «Non saprei proprio dove trovare delle rive così lunghe e belle in Occidente. Probabilmente solo nei pressi del Lago Lemano». La musica popolare ha dedicato al territorio molte canzoni, di cui la più celebre è la seguente:

Platok tonet i ne tonet, / potichonečku plivaet, / milij ljubit i ne ljubit, / tol’ko vremečko vedet. / Ach, Samara-gorodok, / bespokojnaja ja, / bespokojnaja ja, / uspokoj ty menja!

(Il fazzoletto sventola e non sventola, / pian piano scolorisce, / il mio caro ama e non ama, /mentre frettolosamente passa. / Ah, cittadella di Samara. Io sono inquieta, / sono inquieta, / dammi la quiete!)

Del resto tutte le città hanno ispirato canti e balli popolari, molto spesso ripresi dalla stessa musica colta dei maggiori compositori russi.

Samara è la capofila industriale nella zona del Volga ed è una delle dieci città russe con maggior profitto e volume ricavato dalle proprie industrie. Essa è anche nota per la produzione di veicoli aerospaziali, satelliti artificiali e vari servizi spaziali, come motori e cavi, velivoli e alluminio; prodotti chimici e criogenici; lavorazione ed estrazione di gas e petrolio; materiali elettrici; materiale d’aviazione; costruzione di gru e vari materiali; cioccolata; la vodka Rodnik; la birra Žiguli; un’industria alimentare ed elettrica.

CARICYN (STALINGRADO)

La storia di Caricyn ha inizio nel 1589 con la fondazione di una fortezza nel punto di confluenza tra il fiume Carica e il Volga, sull’isola che veniva chiamata dalle popolazioni tatare «Sary-cin», ovvero Sabbia gialla. L’isola è visibile ancora oggi in mezzo al fiume Volga che il quel punto raggiunge una larghezza di circa cinque chilometri. La fortezza, che prese il nome dalla locale lingua tatara, aveva lo scopo di difendere l’instabile confine meridionale della Russia e divenne presto un importante centro economico. Un incendio la distrusse interamente, essendo costruita completamente in legno, nella metà del Seicento. Fu ricostruita immediatamente sulla riva destra del fiume e fu espugnata una prima volta dai Cosacchi ribelli guidati da Sten’ka Razin durante la ribellione del 1670. Pietro il Grande fece affidamento sulla cittadella che intanto veniva ingrandendosi per potenziare i traffici con i territori meridionali della Russia e a difesa delle popolazioni fece costruire un vallo in terra tra Caricyn e Panšin, di cui ancora oggi si posso trovare tracce nella steppa. Nel 1774 il cosacco ribelle Emel’jan Pugačëv prese d’assalto la città saccheggiandola. All’inizio dell’Ottocento Caricyn perse la sua importanza commerciale per le nuove vie di comunicazione che si erano aperte lungo il Don, in seguito alla conquista della Crimea. Ma dopo l’abolizione della servitù della gleba, con l’afflusso continuo di contadini delle immense campagne, divenne un centro per la lavorazione del legno e per il commercio del pesce, diventando il più importante centro per la lavorazione del legname destinato ai paesi vicina, Persia,Turchia, Grecia, Bulgaria, fino ai porti del Mediterraneo. I grandi tronchi di alberi dei boschi settentrionali, trasportati dalla corrente del Volga, venivano lavorati nelle grandi segherie e inviati a destinazione flottando sull’acqua e poi su chiatte e barconi.

La città è stata teatro di furiosi combattimenti durante la Guerra civile russa. Le forze bolsceviche occuparono la città nel cordo del 1918, ma furono poi attaccate da forze controrivoluzionarie al comando di Anton Ivanovič Denikin. Durante la battaglia per Caricyn i bolscevichi furono respinti indietro e circondati, e solo l’intervento di Iosif Stalin, successivamente nominato locale presidente del comitato militare, spostò l’ago della bilancia in favore dei bolscevichi, richiamando sul posto, dal vicino Caucaso, la Brigata d’Acciaio agli ordini del comandante Dmitrij Žloba. In onore di Stalin e dei suoi sforzi, la città fu rinominata Stalingrado nel 1925. Sotto Stalin, la città divenne fortemente industrializzata e si sviluppò come centro di industria pesante e di trasporto sia su ferrovia che su fiume.

Durante la seconda guerra mondiale, la città assunse un’estrema importanza difensiva, per impedire ai nazisti d’impadronirsi delle risorse petrolifere del Caucaso e del Caspio. La battaglia durò dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio 1943. Due milioni di soldati caddero in combattimento, furono feriti o catturati. La VI Armata tedesca fu annientata e il feldmaresciallo Friedrich von Paulus fu costretto ad arrendersi e venne catturato. Circa 40.000 civili persero la vita nella difesa della città, a riprova della strategicità della battaglia.

La città venne ridotta in macerie durante la feroce lotta, il combattimento spesso avvenne quartiere per quartiere e casa per casa. La ricostruzione della città iniziò poco dopo la vittoria sovietica. Per l’eroismo dimostrato durante la battaglia, a Stalingrado è stato assegnato il titolo di Città Eroina nel 1945 e il re inglese elogiò e decorò i cittadini di Stalingrado per il coraggio che dimostrarono durante il conflitto. Negli anni Sessanta, a ricordo della grande battaglia, è stato eretto sulla collina di Mamay nota anche come Kurgan di Mamay, non lontano dal centro della città, un complesso monumentale, dominato dall’immensa Statua della Madre Russia.

Nel novembre 1961, per decisione dell’allora segretario generale del PCUS Nikita Chruščёv, il nome della città fu cambiato in Volgograd, ovvero Città del Volga, nel quadro delle politiche di destalinizzazione dell’URSS. Questa scelta generò all’epoca diverse controversie, data la fama del nome Stalingrado. Ancora oggi la città è ricordata con questo nome. Proprio per queste ragioni nel 2013 le autorità locali e quelle federali hanno deciso di ripristinare Stalingrado come nome ufficiale della città.

Astrachan’ fu menzionata per la prima volta da viaggiatori dell’inizio del XIII secolo con il nome di Xacitarxan. Tamerlano la rase al suolo. Dal 1459 al 1556, Xacitarxan fu la capitale del Khanato di Astrachan’. Le rovine di questo insediamento medievale furono scoperte dagli archeologi 12 km a monte della città moderna, testimonianza della determinazione e della ferocia degli occupanti, discendente da Gengis Khan che aveva devastato quei territori due secoli prima.


ASTRACHAN

Dintorni di Niznij Novgorod 

Nel 1556 il khanato fu conquistato da Ivan il Terribile, che fece costruire una nuova fortezza su una collina scoscesa a guardia del Volga. Nel 1569 Astrachan’ fu assediata dall’esercito ottomano, che dovette ritirarsi per la strenua resistenza degli abitanti. Un anno dopo il Sultano rinunciò alle proprie pretese sulla città, aprendo così l’intero Volga al traffico russo. Fu un passo decisivo per l’espansione dell’impero verso il Caucaso settentrionale e le fertili pianure del del Don e del Kuban, guradando sempre più da vicino al Mar Nero. Nel XVII secolo la città si sviluppò come uno dei crocevia russi verso l’Oriente. Molti mercanti, provenienti dall’Armenia, dalla Persia e dal Khanato di Khiva, si stabilirono in città, creando così un clima variegato e multinazionale, favorevole alle attività produttive e allo sviluppo culturale.

Nel 1670-71 Astrachan’ fu controllata per diciassette mesi dai Cosacchi di Stenka Razin. All’inizio del secolo successivo Pietro il Grande costruì i cantieri navali e fece di Astrachan’ la testa di ponte per le guerre contro la Persia. Successivamente Caterina II concesse alla città importanti privilegi industriali. Nel 1702, 1718 e 1767 vi furono grossi incendi; nel 1719 fu saccheggiata dai Persiani; nel 1830 il colera uccise gran parte della popolazione.

Il cremlino di Astrachan’ fu costruito tra il 1580 ed il 1620 con mattoni provenienti da Saraj Berke. Le due imponenti cattedrali furono consacrate rispettivamente nel 1700 e nel 1710. Costruite da architetti di Jaroslavl’, mantengono molte caratteristiche tradizionali dell’architettura ecclesiastica russa, mentre le decorazioni esterne sono decisamente barocche, testimonianza della presenza di maestranze provenienti dall’Europa centrale.La città si ribellò un’altra volta contro lo zar nel 1705, quando fu controllata dai cosacchi di Kondratij Afanas’evič Bulavin. Un khan calmucco aveva tentato un assedio al cremlino pochi anni prima. Nel 1711, divenne capitale di una gubernija e tra i primi governatori vi furono Artemij Petrovič Volynskij e Vasilij Tatiščev, appartenenti a importanti famiglie di boiari. Sei anni dopo Astrachan’ fu la base per la prima spedizione russa nell’Asia centrale di Aleksandr Bekovič-Čerkasskij.

Oggi la città è un importante porto fluviale e costituisce uno degli snodi del trasporto del petrolio del Caspio in Occidente.

Dintorni di Niznij Novgorod 

BIOGRAFIA COME VIAGGIO NELLA RUSSIA DI FINE OTTOCENTO

Agostino Bagnato, autore del saggio, nelle campagne attorno Niznij Novgorod, 1995

Parlare di Russia rurale è probabilmente improprio per quell’immenso paese le cui caratteristiche feudali perdurano fino alla Rivoluzione d’ottobre. Ma il termine è entrato nel linguaggio comune in Occidente per indicare un territorio dove le attività agricole sono prevalenti rispetto all’artigianato, al piccolo commercio urbano e alle mansioni legate a quel vasto mondo che oggi chiamiamo dei servizi pubblici e privati e che un tempo veniva identificato come piccola borghesia. Non a caso uno dei drammi teatrali più riusciti di Maksim Gor’kij s’intitola proprio Meščanie (Piccoli borghesi), accanto all’altro capolavoro Na dne (A fondo, Bassifondi), ancora oggi rappresentato in molte parti del mondo.

L’esperienza della sua infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza, fino alla formazione culturale e all’avvio dell’attività narrativa, è oggetto di una vastissima narrazione in tre parti, dal titolo Avtobiografija (Autobiografia). La prima parte intitolata Detstvo (Infanzia) fu concepita tra il 1912 e il 1913 quando lo scrittore era residente a Capri. La pubblicazione iniziò a puntate sulla rivista Russkoe slovo (La parola russa) tra l’agosto 1913 e il gennaio 1914, quando Gor’kij era già rientrato in patria, in seguito all’amnistia promulgata dallo zar Nicola II in occasione dei 300 anni dell’ascesa al trono della dinastia Romanov. Il lungo racconto fu pubblicato in volume a Berlino dopo la conclusione della Rivoluzione d’ottobre dall’editore I. Ladyšnikov, con cui era in contatto dall’inizio del 1906, al tempo della partenza per l’America. L’esilio in Crimea per l’attività rivoluzionaria, dopo la Domenica di sangue a Pietroburgo, si era trasformato in condanna a morte e Gor’kij fu costretto a fuggire negli Stati Uniti con l’attrice Marija Andreeva. Tornato in Europa due mesi dopo, in seguito ad un breve soggiorno a Parigi, decise di fermarsi a Capri.

V ljudach (Tra la gente) fu scritto nel 1915 e apparve a puntate sulla rivista Russkoe slovo l’anno successivo, mentre sulla rivista Letopis’ apparve in un numero unico nel 1916. In volume vero e proprio fu stampato a Berlino, sempre dall’editore Ladyšnikov.

Moi universitety (Le mie università) fu concepito al tempo della Rivoluzione d’ottobre e pubblicato a puntate sulla rivista Krasnaja nov’ nella primavera del 1923 e successivamente incluso nella autobiografia che Gor’kij concepì in tre tempi e in tre modalità differenti. I ricordi della giovinezza si fermano all’età di diciotto anni, al tempo della permanenza a Kazan’, quando Gor’kij si chiamava ancora con il suo vero nome Aleksej Maksimovič Peškov. Il periodo successivo non è stato mai affrontato compiutamente dello scrittore e gli appunti, gli abbozzi e le note sono rimasti allo stato embrionale. La necessità di scrivere un’opera biografica era nata molto tempo prima, già al tempo dei racconti e dei romanzi che hanno al centro la vita nella Russia dopo l’abolizione della servitù della gleba e le conseguenze che ne sono derivate per i centri urbani lungo le vie commerciali e artigianali, oltre che per i primi insediamenti industriali lontani da Mosca, Pietroburgo, Kiev e Char’kov. Raccontare quella Russia, la sua Russia che si snoda lungo il Volga, da Nižnij Novgorod ad Astrachan, alla luce della sua esperienza diretta, gli era parsa una grande operazione verità, un modo per fare comprendere le ragioni per cui quel mondo andava cambiato, perché quegli uomini abbrutiti dalla ignoranza e dalla fatica non avrebbero avuto futuro e di conseguenza la Russia non avrebbe ottenuto uno sviluppo economico e sociale nella giustizia e nella libertà. Per quella Russia valeva la pena di combattere, andare in galera, morire, come era successo in precedenza con i Dekabristy e con gli affiliati della Narodnaja Volja. Soltanto che i primi erano nobili e i secondi intellettuali, entrambi nettamente in minoranza nelle rispettive classi sociali e rispetto allo stesso popolo. Per cambiare le cose bisognava mobilitare il popolo e per ottenere quel risultato era necessario mostrare al popolo la verità, fare comprendere la profonda ingiustizia di cui era vittima e di come era possibile procedere sulla strada del riscatto, della rinascita e della responsabilità, coinvolgendo l’intera popolazione, dai grandi centri urbani ai villaggi sparsi nell’immensa steppa.

Pravda, la verità. Questa era la parola magica per Gor’kij, rafforzata negli incontri con Vladimir Galaktionovič Korolenko e successivamente con Lev Nikolaevič Tolstoj, di cui ha lasciato ampia testimonianza lo stesso scrittore.

L’io narrante è la forma più appropriata per raccontare le esperienze umane, familiari e formative, del giovane. La struttura narrativa è lineare, conseguenziale; gli eventi si snodano con logica temporalità. Il linguaggio impiegato è semplice ma molto efficace con il continuo ricorso alla lingua parlata della popolazione che abita le città e i villaggi lungo il corso del Volga. Chi racconta è un uomo maturo che attinge ai suoi ricordi di infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza, facendo ricorso talvolta ad racconti e memorie autobiografiche degli anni precedenti. Ne nasce così un affresco che ha il sapore della cronaca e della rievocazione, salvo talvolta farsi storia perché tratta avvenimenti che sono parte decisiva della storia della Russia di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento.

La narrazione prende il via dal ritorno a casa di Aleksej Maksimovič Peškov sul Volga a bordo del battello Askold’ in compagnia della madre Varvara Vasilievna e della nonna Akulina Ivanovna. Il padre Maksim Aleksievič è morto e la vedova decide di tornare a Nižnij Novgorod, nonostante l’ostilità dei due fratelli Michail e Jakov e del padre Vasilij Kaširin, un artigiano benestante che in passato è stato a capo della corporazione dei tintori della città. Subito emerge la figura straordinaria della nonna, la contadina ciuvascia Akulina Ivanovna, indimenticabile per la sua umanità, sensibilità e capacità di sopportazione delle angherie del marito. Aleksej viene accolto a malincuore nella famiglia, dove i contrasti tra padre i figli per ragioni d’interesse generano un’atmosfera insopportabile. Varvara decide di lasciare l’abitazione per seguire un sogno semplicistico di vita migliore, di stampo borghese, nella grande città di Mosca, lasciando il figlio alle cure dei nonni. La vita nella casa del vecchio Vasilij si svolge tra contrasti e riconciliazioni, che agli occhi del piccolo Aleksej assumono i caratteri della realtà immutabile in cui si dibattono il vecchio lavorante Grigorij divenuto cieco e abbandonato a se stesso e Ivan lo Zingarello adottato, intelligente e il più dotato di tutti che resterà ucciso mentre trasporta una pesante trave di legno nel cortile per colpa di Michail e Jakov. La nonna è al centro di tutto, con la sua umanità e anche con un senso istintivo di religiosità che ha del pagano che risponde ai bisogni della donna di trovare risposte alla violenza interna alla famiglia.

I bambini coetanei di Aleksej sono il rovescio della medaglia, nel senso che l’ignoranza e la miseria materiale si trasformano in spirito di sopravvivenza basato sulle violenza e l’avidità. Ma nel bambino Aleksej, grazie anche all’insegnamento della nonna Akulina, si formano e crescono i primi segni di insoddisfazione e di reazione. Così quando il nonno picchia la moglie interviene per difenderla, provocando l’ira del vecchio. Ma nel cortile della tintoria Kaširin si affacciano personaggi misteriosi che conducono vita appartata e svolgono lavori altrettanto sconosciuti.

Il nonno gli aveva insegnato a leggere e scrivere, così Aleksej si accosta gradualmente ai libri. Si tratta in un primo momento di narrativa popolare e romanzi francesi del ciclo «cappa e spada». Ma la mente del ragazzo si apre al mondo esterno e comincia a prendere coscienza che esistono altre realtà, oltre a quella poverissima e degradante che lo circonda. Il problema è come uscire dalla prigione morale in cui si trova, unitamente a milioni di altri ragazzi e di uomini. Da questa domanda comincia il percorso nella ricerca della verità.

La casa e il laboratorio prendono fuoco, probabilmente appiccato da uno dei figli. La famiglia Kaširin va in rovina. Costretti a vivere di stenti in un sobborgo della città, ci si rende conto che non ci sono più risorse per tutti. così il nonno chiede al bambino di lasciare la casa e di procurarsi da vivere autonomamente. Comincia la vita «tra la gente».

Poi è la volta di Kazan’ dove Aleksej lavora come apprendista disegnatore nella casa di un architetto, la cui moglie è parente della nonna Akulina. L’ambiente è insopportabile per l’ostilità dei membri della famiglia. Nonostante l’invito della nonna che lo va a trovare a resistere alle angherie e alle malvagità, soprattutto della moglie dell’architetto, il giovane decide di lasciare lo studio. Si tratta di un episodio significativo della formazione umana, in quanto l’atmosfera piccolo borghese è più asfissiante di quella dei dormitori per diseredati e miserabili. Poi il ragazzo è assunto come commesso in un negozio di scarpe; le conoscenze di numerose clienti gli sono utili per arricchire la psicologia dell’animo femminile. Poi è la volta del laboratorio di icone e per la vendita di oggetti sacri. L’incontro con alcuni contadini e antiquari rimasti fedeli alla vecchia liturgia ortodossa di Nikon, detti «vecchi credenti», è utili per approfondire gli aspetti della spiritualità popolare della nonna e quella rigida e fedele ai canoni riformati del nonno. Infine, la fabbrica del pane e dei biscotti, che ritornerà nel lungo racconto Kozjain (Il padrone), dove la figura del proprietario della fabbrica Vasilij Semënov ha le caratteristiche inconfondibili della crescente imprenditoria urbana di origine contadina. C’è anche una lunga esperienza sul Volga, come addetto alle cucine: il cuoco lo aiuta a imparare a scrivere e soprattutto gli consegna molti libri da leggere. Durante un viaggio fa la conoscenza di un gruppo di deportati: sono detenuti politici condotti in luoghi sperduti. Ma il personale di bordo, a cominciare da cuoco, sono i suoi veri maestri di vita che il giovane non dimenticherà mai.

Tutti i luoghi di lavoro sono l’occasione per conoscere figure indimenticabili che contribuiscono alla formazione del ragazzo. Questi luoghi e le figure più significative diverranno i protagonisti dei racconti e dei romanzi, a cominciare da Makar Čudra, Čelkas, Byvšie ljudi (Ex uomini), Foma Gordeev, Konovalov, Gorodok Okurov (La cittadina di Okurov), Na stepu (Nella steppa), Mužik (Il contadino), Suprugi Orlovy (I coniugi Orlov), Troe (I tre) per citare soltanto alcuni titoli. E alcune figure sono indimenticabili, come la bellissima «Koroleva Margo» (La regina Margot), moglie di un alto funzionario statale, che lo introduce alle tenerezze dell’amore puro e alla lettura, la lavandaia Natal’ja che lo avvia al sesso e tante altre donne del popolo e della piccola borghesia. Sono gli stessi personaggi che si ritroveranno successivamente nel teatro. A Kazan’ frequenta i circoli rivoluzionari e conosce figure indimenticabili di cospiratori e di organizzatori rivoluzionari. Molti sono studenti della locale università, altri sono giovani intellettuali e impiegati, altri ancora operai che da qualche anno svolgono attività nelle nascenti fabbriche. Tra queste ci sono figure femminili indimenticabili che saranno poi alla base del romanzo Mat’ (La madre) e di tante altre opere di Gor’kij.

Ma è il Volga, il grande fiume, Mat’-reka (Madre fiume) come viene cantato dalla tradizione popolare, che costituisce lo sfondo della prima giovinezza e delle esperienze umane e spirituali, fino alla terribile crisi del 1887 che lo porta a tentare il suicidio, proprio a Kazan’, in una fredda notte invernale. Il giovane si spara due colpi di pistola, per fortuna senza gravi conseguenze; viene salvato da un tataro vagabondo che chiede aiuto e lo assiste come può, fino all’arrivo dei soccorsi. La vicenda è narrata nel lungo racconto Una vicenda di Makar Čudra di qualche anno dopo, con la precisazione che si tratta di una narrazione autobiografica.

Bisogna tenere conto che la crescente popolarità di Maksim Gor’kij incuriosisce e finisce con il coinvolgere anche Lev Tolstoj che incontrerà durante il soggiorno in Crimea dove si trovava per ragioni di salute; Anton Čechov con cui avvia una intensa corrispondenza che produce numerosi incontri, importanti per la prima attività teatrale; Vladimir Korolenko che lo incoraggia nella scrittura e gli fornisce suggerimenti preziosi che portano alla stesura del primo romanzo Makar Čudra. Il rapporto con Korolenko è oggetto anche di un lungo racconto degli anni della piena maturità, testimonianza della riconoscenza che il grande scrittore ha avuto per i suoi maestri, a cominciare da Čechov e Tolstoj.

Queste opere aprono la strada alla piena maturità narrativa di Maksim Gor’kij. A Capri, appena arrivato nell’autunno del 1906 scriverà Mat’ (La madre) che lo renderà celebre in tutto il mondo. Ma anche le opere della maturità risentiranno di quella esperienza giovanile così particolare. In questo senso i tre volumi dell’autobiografia costituiscono una testimonianza imprescindibile per la piena comprensione di Maksim Gor’kij scrittore a uomo. Nonché di Gor’kij rivoluzionario, con tutte le contraddizioni dell’intellettuale che si accosta alla politica militante, sforzandosi di mantenere la sua dimensione autonoma di pensatore e di scrittore. Queste contraddizioni fanno ancora oggi di Maksim Gor’kij una personalità di rilievo che va studiata e approfondita, con animo libero da pregiudizi storici e ideologici e da furie polemiche dovute alla tragica eredità dello stalinismo. Di cui lo stesso Gor’kij è stato anche vittima, con la morte del figlio.

IL CINEMA TRATTO DALLE OPERE DI GOR’KIJ

Il cinema ha utilizzato spesso i temi trattati da Maksim Gor’kij. Nel 1926 Vsevolod Illarionovič Pudovkin dal romanzo La madre ha tratto un film considerato un caposaldo della cinematografia sovietica e per molti aspetti un classico del cinema mondiale. Ancora oggi è visionato e studiato nelle cineteche e nelle scuole di cinema come esempio di opera perfetta per la tecnica della ripresa e l’utilizzo del montaggio nel costruire il racconto visivo. Lo stesso regista sosteneva, a tale proposito: “La nella Madre cercai d’influenzare gli spettatori servendomi non tanto della recitazione psicologica dell’attore, quanto della sintesi ottenuta in fase di montaggio”. L’esito è stato straordinario. L’interpretazione della protagonista, Pelageja Ivanovna, la madre, da parte di Varvara Baranovskaja è ancora oggi un esempio di recitazione nel cinema muto per l’intensità dell’espressione e la gestualità misurata e mai di maniera. Non c’è il sonoro, ma l’espressività della donna è immediata e le parole famose “Almeno una volta prima di morire, non è male uscire un po’ a spasso con la verità!” risuonano precise e forti. Così come la scena della manifestazione con l’apparire della bandiera rossa. “Un’asta bianca e lunga balenò nell’aria, si abbassò, taglio la folla, scomparve in mezzo ad essa e dopo un istante, sopra i volti alzati in aria, si librò come un uccello di fiamma, l’ampia tela rossa della bandiera dei lavoratori… la folla si fece più fitta, Pavel si mosse e la bandiera si spiegò nell’aria, aprendosi nel sole a un largo sorriso rosso…”. Aleksandr Čistjakov veste i panni del marito Michail Vlasov, operaio fabbro ubbriaco e violento. Ma è Nikolaj Batalov, Pavel, il figlio che prende coscienza della necessità della lotta rivoluzionaria, il protagonista di migliaia di casi nella Russia che prepara la rivoluzione.

My – socialisty! Eto značit, čto my bragi častnoj sobstvennosti, katoraja raz-edinjaet ljudej, voružaet ich drug protiv druga, zozdaët neprimirimuju vraždu interesov, lžet, starajas’ skryt’ ili    opravdat’ etu vraždu, i razvraščaet vsech lož’ju, licemeriem i zloboj…

(Noi siamo socialisti! Questo vuol dire che siamo nemici della proprietà privata, la quale divide gli uomini, li arma l’uno contro l’altro, crea un contrasto d’interessi inconciliabile, ricorre alla menzogna per nascondere o giustificare tale conflitto, corrompe tutti con la menzogna, l’ipocrisia, l’odio!…)

Quando grida in faccia alla corte che lo sta per condannare ai lavori forzati, questo giovane attore dimostra una maturità sicura. Anna Zemcova è la straordinaria ragazza rivoluzionaria, una delle migliaia di figlie della borghesia e della piccola nobiltà che rincorrono il sogno della rivoluzione, non suonando il pianoforte ma stampando clandestinamente e distribuendo volantini agli operai e ai contadini. Ivan Koval-Sambovskij è il giovane operaio che ha maturato la scelta della lotta in fabbrica. Lo stesso Vsevolod Pudovkin veste la divisa dell’agente di polizia e lo fa con la grande arte dell’attore di teatro, figlio di quella grande scuola che tanto ha contribuito al teatro moderno in tutto il mondo. La splendida fotografia è di Anatolij Golovnja, la scenografia di Sergej Kozlovskij.

Nel 1968 il film è stato sottoposto ad un accurato restauro da parte della Mosfilm (Moskovskij Fil’m), la società di produzione statale volta dal regime comunista per la cinematografia. In quella occasione il musicista Tichon Krennikov, segretario dell’Unione dei musicisti sovietici, compose la colonna sonora. Il risultato non è del tutto eccellente, perché la musica risulta enfatica e drammatizzante, con il rischio di fare perdere l’attenzione all’immagine da parte dello spettatore.

La stessa tecnica di Vsevold Pudovkin ha impiegato oltre dieci anni dopo l’altro grande regista Mark Semënovič Donskoj nella trilogia dedicata alla vita di Gor’kij: Detstvo (Infanzia), V ljudach (Tra la gente) e Moi universitety (Le mie università). Egli appartiene al gruppo dei cineasti che si è formato alla scuola di Sergej Ejzenštejn, al pari di tanti altri che hanno contribuito ad affermare e diffondere il linguaggio cinematografico, andando oltre gli aspetti propagandistici, pericolo sempre immanente nella politica culturale di ogni regime.

Si tratta di tre lungometraggi che non hanno avuto sufficiente diffusione in Italia e in occidente, ma che presentano innegabili pregi artistici, soprattutto nella recitazione dei bambini che anticipa tanto cinema neorealista italiano. Gli interpreti sono attori indimenticabili, dal giovanissimo Aleksej Ljarskij nei panni di Aleksej Peškov, il futuro Gor’kij, dalla imponente figura di Varvara Maslitinova che dà corpo alla memorabile nonna Akulina Ivanovna, Michail Trojanovskij come il nonno Vasilij Vasilievič Kaširin, Eliziveta Alekseeva come Varvara Kaširina, madre di Aleksej e i due indimenticabili zii materni Jakov e Mikhail rispettivamente interpretati da Vasilij Novikov e Aleksandro Žukov, oltre a molte altre figure appartenenti alla famiglia e lavoratori dell’azienda di tintoria. Allo squallore degli ambienti urbani fa da rovescio della medaglia il meraviglioso panorama del Volga e delle campagne lungo le sue rive, con scorci che sono autentici ritratti della campagna russa e della sua bellezza e poesia, merito della suggestiva fotografia di Ivan Stepanov. Si veda la scena del trasporto della croce lungo la riva del Volga verso il monastero, alcune prospettive del grande fiume mentre scivolano e risalgono lungo la corrente battelli, barconi e chiatte, oppure gli scorci di betulle sbilenche che appaiono quasi come simbologia della sofferenza della popolazione. Girato nel 1938, due anni appena dopo la morte di Gor’kij, il film risente della presenza dello scrittore, ma la sceneggiatura ha cercato di prendere le distanze dalla più diretta concezione del realismo, anche se il carattere sociale dell’opera cinematografica risulta da ogni immagine. Anche la musica di Lev Švarc è funzionale a questo disegno, e la canzone che accompagna le scorribande dei ragazzini e che diventa una sorte di inno della gioventù in cerca di riscatto e di futuro nella Russia della seconda metà dell’Ottocento.

V ljudach risale al 1939 e probabilmente è il più riuscito dei tre, sia per la struttura narrativa più coerente all’intento narrativo che per la precisione del montaggio. Aleksej Ljarskij è l’interprete dell’adolescente Aleksej Peskov che ha lasciato la casa dei nonni dopo la morte della madre per andare tra la gente, prima a Nižnij Novgorod e poi nelle altre città del Volga man mano che passano gli anni, molto spesso scendendo da battelli e barconi che attraccano con il loro carico umano e di merci. Varvara Massalitinova è ancora l’interprete della nonna Akulina Ivanovna Kasirina. Irina Zarubina è la lavandaia Natal’ja, donna forte e indipendente, costretta ad offrire il proprio corpo per riuscire a sopravvivere, senza tuttavia ottenere il riscatto sociale desiderato. Molto riuscite sono le figure degli studenti, degli operai e dei rivoluzionari provenienti da famiglie borghesi., tra la Koroleva Margo (La regina Margot) interpretata da Darija Zerkalova. Anche in questo film il paesaggio gioca un ruolo importante. Molto suggestive sono le scena che si svolgono sui battelli lungo il Volga e le figure di alcuni passeggeri, mentre il bosco è presentato con grande lirismo, nella migliore tradizione russa. La visita al bosco in cerca di funghi e di uccelli è davvero riuscita, per l’equilibrio perfetto tra natura e uomo, in cui i particolari e i primi piani giocano un ruolo molto importante. La musica è di Lev Švarc, molto opportuna nei timbri e nelle sonorità.

Moi universitety (Le mie università) è l’ultimo del ciclo e risale al 1940. Il bambino è cresciuto tra la gente e continua tra la gente la sua formazione umana. Tra il 1884 e il 1888 risiede a Kazan’ facendo tanti mestieri e poi si reca in altre località, tra cui Krasnovidovo. «Circondato da scaricatori, vagabondi, ladri, mi sentivo proprio come un pezzo di ferro caldo gettato su un mucchio di carbone rovente, e ogni giorno mi ha riempito di innumerevoli impressioni dolorose e difficili da dimenticare». Ecco, Donskoj parte da questa considerazione autobiografica di Gor’kij per narrare questi quattro anni decisivi del passaggio dall’adolescenza alla giovinezza. Al termine la “laurea” non è ancora conseguita, se Gor’kij tenterà il suicidio, tornato a Niznij Novgorod, come racconterà in Un episodio nella vita di Fama Gordeev che il regista inserisce al termine del film, con una coda di speranza nella nascita del bambino di una sconosciuta incontrata ai margini di un bosco sparso nelle paludi della steppa tatara.

Gli interpreti sono all’altezza del compito. Nikolaj Valbert veste i panni di Aleksej Peskov, prestante, di altezza superiore alla media, occhi azzurri brillanti, capelli castano chiari arruffati, i baffetti appena accennati, anticipo di quel folto cespuglio sul labbro superiore che sarà il tratto distintivo di Gor’kij già dalla giovinezza; Stepan Kajukov interpreta il proprietario del forno Vasilij Semënov, abilissima personificazione del borghese venuto dalla campagna e arricchitosi sfruttando i suoi simili più bisognosi; Nikolaj Dorochin è Osip Satanov, Lev Sverdlin è Vachman, mentre Nikolaj Plotnikov veste la divisa di Nikiforovič, l’agente di polizia che indaga sui rivoluzionari dentro e fuori la città di Kazan’; Daniel Šagal è lo studente Boris Pletnëv, straordinaria figura di agitatore rivoluzionario accanto a una schiera di altri studenti e giovani operai che saranno la spina dorsale della futura organizzazione socialdemocratica, da cui prenderà il via la rivolta che porterà prima alla rivoluzione del 1905 e soprattutto a quelle di febbraio e di ottobre del 1917. La musica è dovuta al pentagramma del solito Lev Švarc, sempre efficace nonostante qualche sottolineatura enfatica verso la fine, soprattutto quando Aleksej alza in aria verso il cielo il bambino della sconosciuta che ha aiutato a partorire.

Mark Donskoj ricorre alla recitazione realistica, d’impronta Stanislavskij, con l’identificazione dell’attore nel personaggio in ogni sfumatura. In alcuni tratti si rischia la caricatura, ma in generale la recitazione è sempre efficace, a cominciare da quella del protagonista, fine a quella davvero prodigiosa di Kajukov nelle vesti del padrone Semënov. Nelle scene riprese all’interno del forno Donskoj fa il verso alla tecnica di Charlie Chaplin e di Buster Keaton con risultati in genere equilibrati, evitando rischi di caricatura, del resto improbabili vista la statura del regista.

Ecco, una bellissima prova cinematografica, al di là della fonte gor’kiana e comunque un omaggio dovuto al grande scrittore.

Agostino Bagnato

Roma, settembre 2018

[1] Maksim Gor’kij, Autobiografia (a cura di Ignazio Ambrogio), Editori Riuniti, Roma, 1956. Vedi: Infanzia, p.231

[2] Ettore Lo Gatto, La letteratura russo-sovietica, Sansoni, Firenze 1968, p. 73