LEONARDO DA VINCI E IL SUO TEMPO

GIOVANNI FATTORI, Borgo Toscano, acquaforte

Die ungeheuren Umrisse von Leonardos Wesen wird man ewig nur von ferne ahnen Können. 

Jacob Burkhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien

L’immensità dell’ingegno di Leonardo non si potrà mai presentire che da lontano.

Jacob Burkhardt, La cultura del Rinascimento in Italia

Per comprendere la grandezza di Leonardo da Vinci bisogna avere la dimensione completa del tempo in cui è vissuto ed ha potuto sviluppare la sua prodigiosa attività di artista, scienziato, inventore, umanista, letterato, vero protagonista dell’uomo del Rinascimento più di tanti altri

 

LEONARDO DA VINCI E IL SUO TEMPO

Agostino Bagnato

QUADRO D’INSIEME

L’anno 1494 segna uno spartiacque nella storia d’Italia e d’Europa. Dopo la pace di Lodi che nel 1464 aveva posto fine alla lunga guerra tra Milano e Venezia, assicurando all’Italia sviluppo e prosperità, le nazioni europee s’interrogavano su come muovere alla conquista della penisola italica. Le città, le cattedrali, i monumenti, le opere d’arte, le sue ricchezze erano un boccone prelibato per tutti. Nessuno stato italiano era in grado, da solo, di scatenare una guerra di conquista, come aveva dimostrato la necessità della pace di Lodi. Chiunque si fosse mosso, avrebbe provocato la dura reazione di tutti gli altri. Del resto, nessuno degli stati italiani sarebbe stato in grado di portare la guerra fuori dai propri confini, nel tentativo di espandere il proprio potere. Il ducato di Savoia si estendeva gradualmente sulle terre di pianura verso sud est, lungo il primo tratto del fiume Po, divenendo un baluardo contro le mire franco-borgognone e nello stesso tempo ostacolando qualsiasi velleità lombarda, prima viscontea e poi sforzesca, al di là delle Alpi. La Serenissima Repubblica di Venezia aveva consolidato la propria presenza sulla terraferma ed era l’unica nazione in grado di espandere in propri territori, puntando verso i Balcani; ma la potenza della Sublime Porta era un presidio insuperabile verso le montagne dell’interno o verso le terre dell’antico Epiro e le coste dell’Illiria. Né era pensabile dirigersi verso le Alpi, dove l’Imperatore faceva buona guardia. A Genova, la Repubblica oligarchica era contesa tra la famiglia Fieschi e quella Adorno che era riuscita a prendere il sopravvento. A Milano gli Attendolo Sforza si erano sostituiti ai Visconti con un colpo di mano e riuscivano ad assicurare al ducato uno sviluppo economico continuo. Il ducato d’Este cresceva in potenza tra Ferrara, Modena e Reggio e controllava la vasta palude che portava alla foce del Po. Piccole Signorie come i Gonzaga, i Montefeltro, i Malatesta riuscivano appena a difendere il proprio territorio, dove tuttavia si era sviluppata una meravigliosa civiltà, che faceva gola principalmente allo Stato della Chiesa. Firenze difendeva orgogliosamente la natura elettiva e democratica della Signoria; dopo il ruolo decisivo degli Abizzi che aveva assicurato prosperità alla borghesia mercantile e al contado, cresceva l’influenza della famiglia de’ Medici, ostacolata dai banchieri Pazzi, la cui congiura nel 1478 provocò una vera e propria carneficina, alla quale il giovane Leonardo da Vinci assistette imperturbabile, disegnando l’impiccagione di uno dei congiurati in Piazza della Signoria. La Repubblica di Siena a sua volta difendeva il proprio territorio dalla rapace politica fiorentina e dall’usurpazione di feudatari come gli Aldobrandeschi, conti di Santa Fiora. Il Papa era inchiodato sostanzialmente nel Patrimonium Sancti Petri dai tempi di Liutprando, costretto a tenere a bada i feudatari più riottosi: Orsini, Colonna, Caetani, Farnese, Annibaldi non nascondevano mire espansionistiche a danno proprio dello Stato della Chiesa che si consolidava con l’assoggettamento di città e comuni afflitti da eterni conflitti intestini. Nel regno di Napoli, dopo il lungo conflitto che aveva opposto gli aragonesi agli angioini in seguito agli accadimenti del Vespro siciliano, i baroni si erano rivoltati contro l’opprimente fiscalità aragonese; si erano verificate numerose sommosse e congiure che avevano scosso l’ordinamento feudale del regno, ma la potenza catalano-aragonese era sempre riuscita a domare ambizioni di autonomia. L’avidità regale, la protervia baronale e la debolezza delle strutture locali, accanto all’immobilismo della rendita fondiaria, alla fine provocheranno l’arretratezza incolmabile del Mezzogiorno, protrattasi fino all’unità d’Italia e oltre. Pertanto la pace di Lodi aveva alla fine creato un pericoloso immobilismo che avrebbe favorito le mire espansionistiche degli stati vicini. Le scaramucce interne agli Stati italiani, continuate anche negli anni successivi al 1454, erano parte della tradizione, nello stesso tempo alimentate dal Papa che giocava le sue carte per stare sempre sulla scena politica e possibilmente approfittare dell’occasione buona per allargare i propri territori. L’imperatore, sovrano del Sacro romano impero, non aveva più spazio di manovra in Italia, salvo un gioco di alleanza che si basava fondamentalmente sul ducato di Milano.

Questo scenario era tutto interno alla penisola e nessuno era in grado di rompere il cerchio che aveva stretto la pace di Lodi. L’Italia centro settentrionale è libera dalla presenza straniera da circa duecento anni, mentre il regno di Napoli era passato dalla dominazione angioina a quella aragonese nel 1442, dopo la lunga guerra sferrata da Alfonso d’Aragona per la conquista del regno che gli angioini avevano usurpato grazie alla compiacenza del papa. Con la conferma della successione a favore di Ferrante alla morte di Alfonso d’Aragona nel 1458 da parte di Pio II, l’operazione si poteva ritenere conclusa. Il dominio spagnolo sarà così assicurato dopo l’unione della corona di Castiglia con quella di Aragona.

Gli stati vicini erano in agguato. La scoperta dell’America non allontanava l’attenzione di Francia e Spagna dai tesori dell’Umanesimo e del primo Rinascimento. La culla della civiltà classica e la sede del Cristianesimo erano a portata di mano. Ciascuno aspettava il momento opportuno. Le Guerre horrende de Italia, come avrebbe titolato un anonimo cantastorie un poemetto stampato a Venezia nel 1535, erano alle porte.

Quattro novanta quattrocento e mille

De l’anno che Dio prese carne, essendo

Tutte le parti del mondo tranquille,

le creature in gran pace vivendo,

Marte con turbolente sue faville

Poner le volse in sanguinoso mendo,

mettendo in cuore a un tramontan signore

de l’universo farsi imperatore.

Non era l’unico testimone. Paolo Giovio scriveva che «nullis bellorum procellis agitatus» in quanto l’Italia era allora forente in «opima pace» in Historiarum sui temporis liber primus. Ma su tutte svetta la descrizione che dell’Italia successiva alla pace di Lodi avrebbe fatto Francesco Guicciradini, nell’incipit della sua Storia d’Italia, secondo cui la prosperità e lo stato tanto desiderabile della penisola alla fine del secolo XV, era dovuto al fatto che era stata “ridotta tutta in somma quiete e tranquillità, coltivata non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili, che nelle pianure e regioni più fertili». Niccolò Machiavelli lamentava la divisione degli stati regionali, dandone la colpa al papa, mentre Guicciardini sosteneva la logica dell’autonomia e dell’indipendenza di ciascuno stato. Ma la realtà era sotto gli occhi di tutti. L’Italia non poteva restare lungamente nella situazione successiva alla pace di Lodi. Nonostante la prosperità e il benessere di molte regioni, i pericoli erano in agguato e venivano dal mare con le flotte ottomane e barbaresche da un lato e dalle montagne balcaniche sempre più dominate dalla mezza luna del Sultano. Del resto, la stessa natura della penisola non avrebbe consentito di resistere a lungo alle pressioni esterne, per evidenti elementi di debolezza storico-economica, nonostante la prosperità acquisita negli ultimi tempi.

LA STRUTTURA POST FEUDALE

La feudalità non era stata del tutto debellata. I feudatari dell’Imperatore e del Papa lottavano tenacemente per mantenere i propri privilegi di natura giudiziaria, militare e fiscale. Ogni Stato sorto dalla dissoluzione della civiltà comunale aveva ordinamenti propri, a seconda della dipendenza imperiale o pontificia e della dislocazione territoriale. Tuttavia, un timido dibattito sui diritti della borghesia urbana e delle popolazioni del contado si andava appalesando attraverso le corporazioni che continuavano ad avere un ruolo nel governo delle città e dei territori dei singoli Stati, regolandone le attività produttive, mercantili ed economiche in generale. Il potere del Signore era esercitato con grande vigoria e decisione, ma non mancavano esempi di umanità e di virtù. La giustizia era esercitata sulla base delle prerogative feudali con durezza e spesso con sommarietà, ma non mancavano casi di magnanimità e di probità. Il potere di confisca dei beni da parte dell’Imperatore o del Papa dei beni di feudatari riottosi e violenti rappresentava talvolta un deterrente per soprusi intollerabili, ma non era facile ricorrere contro le gesta del signore locale, il cui potere riconosciuto come ereditario costituiva un ostacolo insormontabile per ottenere giustizia da parte delle popolazioni. Il potere del signore veniva esercitato sotto una parvenza di approvazione da parte dell’assemblea degli anziani, se così si può affermare, ovvero la partecipazione delle corporazioni al consiglio della municipalità o della Signoria. Nulla a che vedere con il Parlamento inglese e neanche al consiglio dei priori della precedente civiltà comunale. Il ruolo delle assemblee era necessario per prendere decisioni di natura fiscale o di limitazione dei privilegi in caso di necessità, oppure per armare un esercito per fini offensivi e difensivi. Ma la Signoria rispondeva fondamentalmente all’Imperatore o al Papa. Da qui contrasti e conteziosi spesso sanguinosi, con dolorosi strascichi all0interno delle comunità.

Il diritto privato stentava ad affermarsi tra le coscienze della popolazione borghese e i trattati universitari sull’evoluzione del diritto romano e di quello giustinianeo avevano circolazione limitata. Tuttavia l’insegnamento di Irnerio nello Studio di Bologna aveva lasciato profonde tracce, per cui il diritto privato si faceva lentamente strada, partendo dai principi del Digesto del Corpus iuris civilis di Giustiniano. Il diritto di proprietà era salvaguardato e spesso, a farne le spese, era il demanio pubblico, oggetto di confische e usurpazioni da parte dei signorotti feudatari, ma anche a danno delle proprietà allodiali, di quelle riscattate dalle popolazioni e dai singoli agricoltori nonché delle abbazie, dei conventi e dei monasteri. Strascichi giudiziari di questa natura si sono protratti fino all’inizio del Novecento, nonostante l’eversione della feudalità decretata da Napoleone Bonaparte e successivamente dallo stato unitario dopo il 1861. Lo stesso Leonardo da Vinci sarà vittima indiretta di questa situazione, quando il progetto di bonifica delle paludi pontine, redatto nel 1513, fu abbandonato negli anni successivi per le resistenze insormontabili delle popolazioni locali. Lo spirito dell’Umanesimo cominciava a permeare anche il diritto naturale, per cui le corti signorili non potevano ignorare a lungo il nascente bisogno di giustizia, anche come terreno di sviluppo culturale oltre che economico. Accanto a questo contribuivano le scoperte scientifiche e alcune conquiste, come la stampa con caratteri mobili, che stavano producendo una vera e propria rivoluzione del pensiero e dell’agire umano. Si pensi quante suggestioni ha potuto ricevere Leonardo da Vinci nel suo soggiorno fiorentino e poi a Milano, Mantova, Venezia e Roma, per finire la sua esistenza nella quiete della valle della Loira, ad Amboise. Senza questa congerie culturale e scientifica non ci sarebbero i suoi quaderni, gli scritti, i progetti visionari, le scoperte e le invenzioni che fanno la sua grandezza incommensurabile e il suo genio universale.

Tra le novità più importanti del tempo di Leonardo c’è l’arte militare. Le armi da fuoco e l’artiglieria avevano mutato la struttura delle fortificazioni. Fossati, merlature e bastioni non erano sufficienti a contenere l’assalto e l’assedio delle città. Sugli spalti delle fortezze, dei castelli e delle mura di cinta cannoni e bombarde non riuscivano a contrastare la potenza di fuoco degli assedianti. La natura degli eserciti era cambiata, in conseguenza delle nuove armi e delle strategie offensive e difensive che richiedevano reparti di fanteria veloci e dinamici. La stessa cavalleria era diventata più leggera per favorire rapide incursioni e rapidi assalti. Il vettovagliamento non era più garantito soltanto dalla rapina e dalla razzia. Cominciava a prendere corpo la moderna retrovia organizzata. Alle compagnie di ventura si sostituivano gradualmente eserciti stabili, formati da volontari o da soldati di leva, non più dai contingenti di natura feudale forniti dai vari conti e marchesi eredi delle investiture. Ma gli eserciti erano formati ancora in grande misura da mercenari, tra i quali si distinguevano gli Svizzeri. Per sconfiggere la rivolta dei baroni nel regno di Napoli, Alfonso d’Aragona aveva fatto ricorso agli epiroti e agli illiri, ovvero gli albanesi al comando di Giorgio Castriota, meglio noto come Skanderbeg, principe di Kruje; per ricompensa, il re concesse alla soldataglia terreni nelle zone più impervie del regno, dando origine alla presenza albanese in Italia, ancora oggi percepibile in alcune regioni meridionali.

In questo scenario in continua evoluzione tecnica e strategica, gli stati italiani giocavano un ruolo importante. Milano, Venezia, Firenze e Napoli erano il fulcro dello scacchiere, avendo al centro lo Stato della Chiesa che esercitava una funzione di contenimento e di mediazione tra le potenze in continua agitazione; nello stesso tempo il pontefice esercitava il proprio potere d’interdizione tra l’imperatore, la Spagna e la Francia. La Sublime Porta era sempre all’erta e dopo la conquista del Balcani era pronta a sferrare il colpo mortale contro l’Europa cristiana. La prima avvisaglia era stata l’occupazione di Otranto nel 1480 e l’eccidio della popolazione. La cristianità assistette sgomenta alla tragedia, ma ognuno pensava ai fatti propri, pronto ad approfittare degli eventi per accrescere il proprio potere, allargare i confini, stringere nuove alleanze.

Gli storici sono concordi nel ritenere che verso la fine del XV secolo, dopo la scoperta delle nuove terre che promettevano immense ricchezze soprattutto alla Spagna, che aveva organizzato e finanziato l’avventura di Cristoforo Colombo, i tempi erano maturi per cambiare l’assetto politico in Italia. Gli attori di questa avventura erano principalmente Francia e Spagna. Il sovrano del Sacro Romano Impero, a quel tempo Sigismondo di Lussemburgo, svolgeva un ruolo di rincalzo a favore della Spagna. Il Papa restava guardingo verso entrambi i contendenti, pronto ad approfittare di qualsiasi occasione favorevole per allargare i propri domini nella Romagna, dove la consistenza dei signori locali non permetteva una lunga resistenza in mancanza di appoggi da parte di Milano, Venezia, Firenze.

Naturalmente, gli storici raccontano le vicende dal loro punto di vista, soprattutto nazionale e dinastico. Gli storici italiani dell’epoca hanno maggiore difficoltà ad offrire una lettura d’insieme obiettiva e serena. Su tutti emerge Francesco Guicciardini, fiorentino e governatore di Parma per conto del pontefice, le cui teorie alimenteranno una interpretazione della politica in Italia, con la prevalenza dell’interesse «particulare» sul quello generale della collettività, mentre Niccolò Machiavelli traccia una geniale analisi delle vicende per trarne conclusioni politiche, di filosofia politica e della storia e di morale, troppo affrettatamente sintetizzate nella formula «Il fine giustifica i mezzi». Bisognerà aspettare Ludovico Antonio Muratori per avere una sintesi generale delle vicende italiane e soprattutto la testimonianza di Giovanbattista Vico, la cui teoria dei corsi e ricorsi della storia ha aperto le porte alla moderna storiografia.

LA RAGIONE DELLE SIGNORIE

La storia di quel tragico periodo dell’Italia si presta ancora a letture moderne ed a nuove interpretazioni, anche alla luce di documenti riletti con rinnovata attenzione e sensibilità. Il tempo di Leonardo è anche questo: capire quanto successo per comprendere meglio il dispiegarsi della genialità vinciana. Lo storico inglese Herbert Albert Laurens Fisher offre una lettura ancora oggi condivisibile nella sua basilare Storia d’Europa, pubblicata in tre volumi in Italia dall’editore Laterza nel 1973. E’ trascorso poco meno di un secolo da quando questo insigne studioso della storia europea ha tracciato il percorso dei popoli europei con lucidità e obiettività, compiendo una sforzo di sintesi veramente ammirevole. Anche se è trascorso molto tempo e numerose sensibilità sono mutate, soprattutto negli ultimi anni, la sua analisi appare convincente e comunque valida quale punto di riferimento per la complessità delle vicende riguardanti la penisola italica. Egli cerca d’inquadrare le vicende in un contesto di continuo aggiornamento e di costante ancoraggio ai fatti.

Per inquadrare il periodo riguardante i decenni a cavallo del XVI secolo, corrispondenti alla vita di Leonardo da Vinci, Fisher parte da lontano. Intanto, dalla formazione delle signorie. «Il signore italiano fu il risultato di due circostanze incompatibili: l’amore al commercio e lo spirito combattivo. Ogni città sentì presto o tardi l’esigenza di un governo forte o a difesa contro un pericolo definito o perché frenasse lo spirito di fazione e conservasse ed estendesse l’industria e il commercio; e, al tempo stesso, chiese a volte l’aiuto di un soldato vittorioso, a volte quello di un magistrato civile di qualche altra città che, indipendente dalle contese locali, potesse agire imparzialmente. Ma lo spirito di libertà, vivo forte a quel tempo, impose dapprima una certa cautela in tali esperimenti. Il podestà era nominato per un anno solo, o per pochi anni; ma il bisogno di avere, specie in tempi difficili, una autorità in grado di agire prontamente e di esercitare una politica vigorosa, trascendente i limiti di una costituzione popolare appena sufficiente alle anguste esigenze locali, era sentito così profondamente che l’istituzione, non appena adottata, pose immediatamente radici nella morale politica del paese. Il signore che dominò la scena italiana nel secolo XIV e XIV altro non era che un podestà stabile ed ereditario; tra i più antichi fu Cangrande della Scala di Verona, il cui padre era stato eletto capitano del popolo a vita e che brilla nella storia come patrono di Dante e di Giotto e primo esempio di quella bizzarra unione tipicamente italiana di una concezione rigidamente tirannica con il gusto di una corte raffinata e un amore per le arti concretato in una protezione non soltanto liberale, ma addirittura munifica». (Vol. I, pp. 414-415) Egli passa in rassegna i fattori militari che hanno portato all’ascesa delle famiglie nelle varie città, fino al configurarsi delle vere e proprie signorie. Non trascura gli abusi del potere, le usurpazioni, le violenze, le crudeltà e atti veramente infamanti commessi dai principali despoti che la letteratura storica, sotto forma di cronaca e la narrativa successiva non hanno trascurato di raccontare. Il ruolo delle compagnie di ventura e degli eserciti mercenari fu decisivo per delineare la mappa del potere e quello scenario di forze combattenti è ancora in piedi al tempo delle guerre d’Italia scatenate da Carlo VIII.

«Molti sono nella storia gli esempi di dispotismo che paralizzarono, demoralizzandolo, lo spirito di un popolo soggetto; ma il dispotismo italiano, benché oscurato e macchiato da crudeltà, astuzia e capriccio, non soffocò, a quanto pare, la libera espressione dello spirito umano, né introdusse costumi servili e umilianti. Nell’età delle Signorie in Italia è un’epoca luminosa nella storia del genio umano, in cui accanto alle opere d’individui eletti, l’energia della volontà popolare esisteva ancora intatta formidabile: onde meglio riuscivano quei signori che, come i Medici di Firenze, non estraniandosi dal popolo, sapevano intenderne le esigenze». (Vol. I, p. 415)

Come fare a comprendere nella loro pienezza gli avvenimenti che precedono la pace di Lodi e il successivo quarantennale periodo di pace senza tenere conto della visione d’insieme di quel tormentato periodo…

«Impossibile analizzare in una storia generale il processo attraverso il quale gruppi di città indipendenti si vennero gradatamente fondendo in grandi unità. Basti dire che, all’inizio del secolo XV, cinque erano le principali potenze dominanti la vita politica italiana: il regno di Napoli, lo stato papale, la repubblica di Venezia, la signoria di Milano e quella di Firenze che, sebbene nominalmente repubblica, si trovava in verità sotto il dominio della potente famiglia degli Albizzi. Il lungo duello per il dominio dei mari tra Genova e Venezia si conchiuse con la guerra di Chioggia (1378-1381) a favore di Venezia, con uno dei più completi rovesci militari che ricordi la storia. D’allora in poi Genova, sempre straziata da fazioni interne e confinata tra mari e monti, fu più potente sul Bosforo che non in Italia.» (ibidem)

Al centro dell’indagine, lo storico inglese pone il caso di Milano il destino delle famiglie Visconti e Sforza. «Gian Galeazzo Visconti, la figura più notevole di tutta la dinastia (1378-1402), fu uno di quegli uomini fortunati le cui ambizioni personali, perseguite senza scrupoli morali ma con pertinacia, coincidono con l’interesse pubblico del momento. In una città, divisa, nei suoi elementi migliori, in guelfi e ghibellini, un padrone disposto a comporre le discordie era più che mai necessario. La protezione di un governo forte giovò ai mercanti, agli artigiani ed ai campagnoli del contado; e se sotto il dominio milanese le città rimpiangevano la propria indipendenza, erano compensate però dai solidi vantaggi creati da un’amministrazione economica e da un prosperoso commercio. Del resto, come osservò il Commines, (Philippe de Commynes, nda) dal momento in cui i nobili lombardi si trasferirono nella città, il padrone di Milano divenne praticamente il padrone dello stato». La riprova la si ha osservando l’espansione del ducato milanese anno dopo anno. Soltanto alcune città sono riuscite a resistere all’attrazione dei Visconti prima e degli Sforza dopo. Tra queste c’è il caso di Parma che, pur dilaniata da lotte intestine tra famiglie guelfe e ghibelline, riuscì a mantenere la propria autonomia politica, forte anche del legame storico con lo Stato della Chiesa. Ma anche il destino di Parma era segnato proprio da questo legame con il pontefice: dopo una lunga reggenza della diocesi parmense da parte del cardinale Farnese, appena eletto pontefice con il nome di Paolo III e approfittando delle discordie interne alimentate dalla stessa curia papale, unico caso nella storia recente dell’Italia rinascimentale, la città d’oro diventava sede di un ducato assoggettato proprio a Roma. Il papa l’aveva consegnata al nipote con il titolo di duca di Parma e Piacenza. Un capolavoro di ipocrisia e di astuzia politica.

Ma il ruolo delle signorie ha consentito prosperità e benessere ai territori sulla destra e sulla sinistra del Po, consolidando quel processo di costruzione degli stati locali che sarà la caratteristica dell’Italia fino al Risorgimento e all’unità. Il percorso esemplare fu quello di Milano. «Nel mezzo secolo che segue la morte di Gian Galeazzo Visconti la storia dell’Italia settentrionale è intessuta di continue guerre suscitate dall’ambizione milanese, contro cui cercano di difendersi veneziani e fiorentini. Gli anni preziosi e ormai irrevocabili in cui gli Italiani, uniti tutti in un solo sforzo, avrebbero potuto salvare l’Europa dai turchi, furono spesi da tre dei più ricchi e progrediti stati del mondo in sterili ed inutili lotte. Le cinque guerre tra Milano e Venezia, l’ultima della quali si protrasse per sette anni, ebbero come risultato di paralizzare gli sforzi cristiani in oriente; e quando finalmente nel 1454 si firmò la pace di Lodi, i turchi erano già padroni di Costantinopoli. Neanche i milanesi attuarono il loro sogno ambizioso. Anche senza l’aiuto del papa, Venezia e Firenze erano abbastanza ricche e potenti per opporsi alla formazione di uno stato italiano settentrionale con centro Milano. Il ducato, restaurato e ampliato dall’abilità di Filippo Maria Visconti, dopo un intervallo d’anarchia seguito alla morte del padre, era ancora ben lontano dal ducato dei suoi sogni, poiché l’opposizione di Venezia e Firenze era insormontabile e si fece più forte che mai alla morte di Filippo, nel 1447…

Ma il colpo di stato dello Sforza sarebbe stato impossibile senza l’improvvisa rivoluzione politica avvenuta in Firenze. Il condottiero milanese fu aiutato dalla pingue borsa del suo amico Cosimo de’ Medici, mercante fiorentino, che richiamato dall’esilio nel 1434, era diventato de facto il capo dello stato. Questo freddo osservatore vedeva in Venezia, e non in Milano, la vera nemica del commercio fiorentino. Firenze, capitale spirituale d’Italia, patria di Dante, Petrarca e Boccaccio, era, dal punto di vista economico, rinomata per le banche, il commercio e la manifattura delle stoffe. Nella grande lotta tra guelfi e ghibellini, i fiorentini, aborrenti dall’idea imperiale in qualunque forma, abbracciarono la causa papale e, in conseguenza, francese. E poiché Firenze non viveva soltanto di aspirazioni religiose e politiche, ma ben sapeva giovarsi delle occasioni, sfruttò la propria tendenza papale per arricchirsi assolvendo alla funzione di banca della uria romana. Un banchiere in grande e è anche un diplomatico e un uomo di stato. Gli affari bancari misero Firenze in relazione coi governi di molti paesi. La grande famiglia dei banchieri Rotschild del secolo quattordicesimo, diede un primo ministro a Napoli, un signore a Malta, un despota a Corinto e una dinastia di duchi fiorentini ad Atene. E tuttavia, nonostante lo sviluppo della finanza e dei grandi affari cosmopoliti, lo spirito fiorentino era rimasto appassionatamente e gelosamente ugualitario. Nessuna famiglia voleva ammettere la supremazia di un’altra, nutrendo ognuna l’ambizione di conquistarla per sé… alla prima prova seria tale costituzione doveva inevitabilmente cadere. Non appena Firenze si accorse della minaccia rappresentata dai vicini e della necessità di conquistare anche il paese attorno alla città per rendere sicuri i suoi rapporti commerciali, fu necessario eludere le elaborate precauzioni dell’antica costituzione, così popolari che nessuno aveva proposto di abrogarle…

Il regno militare di Napoli, che avrebbe potuto essere il più potente tra gli stati italiani, era invece praticamente il meno forte. Poco giova agli stati il fascino del clima, il pittoresco del paesaggio o l’antica origine degli abitanti. Un’aura di tragedia politica par che incomba sulla ridente ragione d’Italia, dimora favorita di banditi e di briganti, illuminata per prima dal solo della civiltà greca. Nulla vi prosperò a lungo e il paese rimase un compendio di splendide civiltà interrotte e di grandi imprese compiute. Ai normanni succedettero gli Hohenstaufen, sotto i quali Napoli fu forse il più progredito e meglio governato paese d’Europa. Ma caduta la potenza degli Hohenstaufen, le due Sicilie furono date dal papa allo straniero Carlo d’Angiò; e da allora in poi non si ebbero che sventure. Carlo era un tiranno egoista e indegno. I siciliani, con caratteristico spirito toscano, insorsero contro di lui, massacrarono i suoi funzionari e chiamarono al governo gli aragonesi, discendenti, per via femminile, da Manfredi, figlio illegittimo di Federico II.

Ma altri guai dovevano ancora straziare l’Italia meridionale. Gli angioini, razza ambiziosa e superficiale, più preoccupati delle apparenze che di creare un vero governo, mal s’accontentava del regno di Napoli unita alla nativa contea francese di Provenza. Il ramo primogenito della famiglia andò perciò a governare l’Ungheria, mentre il secondogenito rimaneva in Italia. e poiché nessuna unione di territori appariva assurda alla mentalità angioina, Luigi d’Ungheria invase Napoli nella speranza di unire ambo i regni sotto il proprio scettro. Anche quando questo progetto pazzesco fu abbandonato e Napoli potè sistemarsi sotto un ramo cadetto della famiglia angioina (Carlo III di Durazzo col figlio Ladislao e la figlia Giovanna II, 1382-1435) che, non avendo possedimenti francesi, poteva più intimamente fondersi con gli interessi napoletani, le basi della monarchia continuarono ad essere malferme. Le pretese della casa di Durazzo erano avversate in Sicilia e in Provenza e al sovrano si opponevano i baroni cui più giovava un intrigo con un pretendente straniero. Una dinastia straniera, una serie di re insignificanti e di cattive regine, la disperata incertezza e inquietudine creata dalle guerre di successione, fecero della politica napoletana sotto la casa d’Angiò una specie di melodramma violento. Finalmente nel 1435 nel saggio e affascinante Alfonso V d’Aragona, Napoli trovò un capo, esperto statista, vero principe del Rinascimento, fermo, munifico, colto e, in quel momento, potente. Alfonso comprese che soltanto una stretta alleanza con Firenze e Milano poteva difendere la sua casa dall’invadenza francese. E l’unione ch’egli riuscì ad attuare fu l’unico trionfo dell’arte di stato napoletana nel secolo quindicesimo, e il suo unico contributo al benessere politico d’Italia. dopo la morte di Alfonso, l’alleanza fu spezzata dal tradimento di Milano e s’aprì allora un nuovo capitolo di guai per l’Italia e per Napoli; e così vaste furono le conseguenze che alcuni storici vollero vedervi la linea di divisione tra mondo medievale e moderno». (pp. 417-425)

Questo è il quadro dell’Italia negli anni che vedono Leonardo giovinetto nella casa del nonno Antonio e dello zio Francesco a Vinci, mentre la madre naturale Caterina lo accudisce come può, sposa di un fornaciaio di Anchiano. Sono gli anni del soggiorno fiorentino nella casa del padre ser Piero notaio e poi nella bottega di mastro Andrea del Verrocchio, quando assiste all’ascesa di Lorenzo de’ Medici e del fratello Giuliano e poi alla tragedia della congiura dei Pazzi con tutte le terribili conseguenze di sangue. Sono gli anni del lungo soggiorno milanese, alla corte di Ludovico il Moro, tra feste e spettacoli musicali, tornei e ritratti di belle donne, tra incarichi urbanistici e architettonici che contribuiscono a trasformare Milano da città medievale in moderno centro rinascimentale. Sono gli anni del terremoto politico con l’arrivo di Carlo VIII e lo scatenarsi delle devastanti guerre d’Italia che si concluderanno con il Sacco di Roma nel 1527 e l’incoronazione di Carlo V a Bologna il 5 febbraio 1530 a sovrano del Sacro Romano Impero. Sono gli anni delle peregrinazioni di Leonardo tra Mantova, Venezia, Firenze, di nuovo Milano e poi Roma, per finire alla corte di Francesco I in Francia e spegnersi nel maniero di Cloux, nei pressi di Amboise nella valle della Loira, sede temporanea della corona francese.

Anni che segnano il passaggio di un’epoca ad un’altra, non soltanto per la scoperta delle nuove terre sulla rotta presupposta delle Indie, ma soprattutto per il cambiamento di cultura, modi di guardare al mondo, sentire la natura attorno, concepire la vita e la bellezza. Sono gli anni del tramonto definitivo del Medioevo e della nascita dei tempi moderni e della nuova scienza. Non passeranno molte stagioni e all’uomo si aprirà un nuovo spazio mentale e spirituale che costruirà l’evo moderno e porterà al razionalismo e all’empirismo, su cui germoglierà l’Illuminismo e l’Encyclopédie.

L’ECONOMIA

Nell’Italia a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, l’economia presenta aspetti diversificati, non soltanto per ragioni geografiche. Dopo la grande crisi del XVI secolo, conseguenze anche della peste che provocò enormi perdite umane, si era verificato la crescita della popolazione e una sostanziale ripresa della produzione agricola e dell’allevamento. Erano cresciute anche le città, chiuse nelle mura merlate e difese da bastioni a prova d’assalto col macchine militari tradizionali, mentre il contado si andava popolando con la diffusione della mezzadria e della colonia.

Perno dell’economia era la produzione agricola, sia per l’autoconsumo prevalente sia per il commercio, dalla lana alle pelli. La coltivazione della vite, praticata da tempo immemorabile, riprese slancio dopo la tragedia della peste che tra il 1347 e il 1352 provocò la scomparsa di un terzo della popolazione in Europa. Anche l’ulivo tornò a diffondersi nelle zone collinari, mentre in ogni podere si tornò a piantare alberi da frutto (pesco, pero, melo, mandorlo, ciliegio, noce, melograno, etc.) mentre nelle terre meridionali si diffuse l’agrumeto importato dagli arabi in Sicilia molti secoli prima. La frutta era appannaggio del padrone, destinata alla tavola del Signore, mentre al contadino e al borghese spettavano prevalentemente ortaggi e verdure. L’orto è rimasto prerogativa dei poveri fino al Novecento, mentre il giardino era il regno dei nobili e dei ricchi, concepito come «hortus conclusus» e giardino di delizie dai molti rimandi biblici e mitologici. L’allevamento del bestiame bovino e suino era ancora limitato, prevalendo il pascolo brado, mentre nelle valli, nei laghi, nei fiumi e negli stagni la produzione di anguille e di altre specie ittiche continuava su solide tradizioni che risalivano al Capitulare de villis vel curtis imperii di Carlo Magno, ovunque fosse possibile. La caccia e la pesca continuavano ad essere appannaggio del vescovo, del principe o del feudatario, mentre ai contadini era lasciato l’allevamento di galline, colombi, conigli. L’orto domestico è quello secolare.

Qualche decennio ancora e l’agricoltura europea sarà rivoluzionata dall’arrivo delle varietà vegetali dal Nuovo Continente. Sarà quella una svolta epica nell’alimentazione umana, a partire dalla diffusione della patata, delle zucche, della melanzana e del pomodoro, cui si aggiunse il mais che in Italia si diffuse con il nome di granoturco perché importato dai Balcani occupate del Sultano, dove si era diffuso in precedenza.

Il bosco esercitava una funzione tra la sacralità pagana e l’utilitarismo. Il legno era fondamentale per la costruzione di tetti, porte, finestre e mobilio in ogni latitudine, mentre era strategico per le potenze marittime nella costruzione della navi. Venezia innanzi tutto, il cui arsenale brulicava di maestranze, e poi i porti della costa romagnola, giungendo ad Ancona; sull’altro versante, la repubblica di Genova legata alla Cassa di S. Giorgio, sorta di banca interna del dogato, Pisa, Civitavecchia e più i porti del regno di Napoli le cui darsene producevano battelli di ogni tipo. L’artigianato urbano tendeva a rinnovare le produzioni in campo manifatturiero, raggiungendo livelli di alta qualificazione nel settore tessile, arredamento, oreficeria. Gli edifici destinati a servizio pubblico e privato e soprattutto la costruzione di chiese e cattedrali aveva prodotto molti capolavori, grazie all’impegno dei migliori architetti e muratori del tempo.

La produzione delle armi da fuoco e dell’artiglieria, delle armature e delle armi tradizionali come spade, lance, picche, mazze, asce si consolida nelle zone di tradizione lavorazione metallurgica, dove le miniere di ferro svolgono un ruolo fondamentale per assicurare la materia prima alle fornaci, ai fabbri e alle officine. La Lombardia domina con i forni di Brescia; Venezia si distingue per le armi leggere, mentre Ferrara è capace di fondere potenti cannoni. Più distanziata Firenze e anche Roma non ha una industria militare adeguata, al contrario di Napoli che si attrezza per non dipendere esclusivamente dalla Spagna.

L’alimentazione umana era prevalentemente basata sulla triade greco-romana cereali, olio, vino. L’allevamento ovino garantiva lana per l’abbigliamento, mentre la diffusione del baco da seta sviluppò ulteriormente la tessitura domestica e la nascita delle filande in tutta la penisola. La scoperta dell’allume per tingere i tessuti scatenò contese per il controllo delle rotte commerciali interne.

La diffusione del commercio, la circolazione del denaro per cui le banche i i cambiavalute rappresentavano un potere di cui si servivano i governanti italiani, a cominciare dal papa e dai regnanti europei. Dominavano la scena i banchieri toscani, come è noto, a cominciare dalle famiglie de’ Medici, Albizzi, Strozzi e Pazzi, mentre la famiglia Fugger, originaria di Augusta, in Germania, che dominava il commercio europeo di materie prime e manufatti, cominciava ad affacciarsi in campo finanziario anche Italia attraverso la sede veneziana di Jacob Fugger, divenendo uno dei banchieri dello Stato della Chiesa. La cacciata degli ebrei dalla Spagna e dal regno di Napoli accrebbe le difficoltà degli Aragonesi nell’Italia meridionale, mentre la diffusione dei prestatori di denaro ebrei negli stati dell’Italia settentrionale favorì lo sviluppo delle attività urbane.

L’Inghilterra non appariva interessata alle vicende continentali, dopo la conclusione della guerra dei cent’anni. Il suo sguardo era al commercio delle spezie con le terre asiatiche e per un primo insediamento nel Nuovo mondo. Era la Spagna che guardava alle Americhe con grande attenzione, avendone intuito le enormi ricchezze e la relativa facilità della conquista. Era l’Eldorado, la terra dell’oro, che in pochi decenni sarebbe stata saccheggiata da conquistadores avidi e feroci, trasformando la conquista in un massacro dei nativi. Il nome America era stranamente e indirettamente legato allo stesso Leonardo. Il maestro frequentava la banca della famiglia Petrucci di Firenze, nella cui residenza aveva anche soggiornato all’inizio del 1503, facendo sicuramente la conoscenza del giovane Amerigo Vespucci che lavorava presso la banca. La Francia era distratta dalla nuova avventura dalle vicende interne e dalla sistemazione dei Paesi Bassi.

La struttura fondiaria dell’Italia risente fortemente dell’eredità feudale, anche se la civiltà comunale era riuscita a spezzare l’istituto demaniale e l’enfiteusi perpetua. La proprietà ecclesiastica era ancora dominante, con le abbazie e i monasteri che detenevano immensi patrimoni su cui si esercita un’agricoltura prevalentemente di sussistenza. Purtuttavia, lentamente cresce la formazione della proprietà contadina e si intensificano i tentativi di passare dal pascolo al seminativo man mano che cresce la popolazione. La borghesia urbana investe nel contado e nell’agricoltura i proventi della mercatura e dell’artigianato, stimolando la mezzadria e l’affittanza, mentre nell’Italia meridionale il baronaggio perpetua il latifondo e forme di colonia molto arretrate.

E’ noto quanto Leonardo tenesse alla vigna che gli aveva donato Ludovico il Moro a Milano e come difendesse l’eredità dello zio Francesco a Vinci dalla cupidigia dei fratellastri.

L’ANNO 1494

Questo scenario si presenta ai protagonisti della scena europea subito dopo che un coraggioso navigatore genovese, al servizio di Isabella di Castiglia e di Ferdinando d’Aragona, il 12 ottobre 1492 tocca una terra sconosciuta, dopo un lunghissimo viaggio «di là dal sol, nel mare sanza gente», come aveva scritto Dante Alighieri e che Leonardo ben conosceva. Ma nessuno presta attenzione alla notizia che le Indie orientali si possono finalmente raggiungere anche dall’occidente. Grande abbaglio che rallenta la corsa delle nazioni europee, fino a quando Amerigo Vespucci non dimostra che quelle terre sono un nuovo, immenso continente, le cui ricchezze sono a portata di mano per chi è in grado di raggiungere quelle latitudini.

Le nazioni europee, esauste per le lunghe guerre combattute per dare un assetto stabile alla vecchia Europa, s’interrogano su come allargare i propri confini, anche e soprattutto per rafforzare quelli esistenti. L’asse portante di questo teorema sono da un lato i Paesi Bassi comprendenti il ducato di Borgogna, Fiandre e Olanda; dall’altro lato i confini orientali lungo il Reno fino alla terminazione alpina con la Svizzera di Giovanni Senza Terra. Da una parte la Francia e dall’altra l’Impero asburgico, cuore del Sacro Romano Impero. Il confine tra Spagna e Francia non si gioca sui Pirenei, confine naturale, ma sulle terre delle Fiandre e dei Paesi Bassi, occupati dalla Spagna.

Chi muoverà la prima mossa?

Ed ecco l’occasione propizia, proprio nel 1494. Alfonso d’Aragona, succeduto a Ferrante sul trono del regno di Napoli, aspirava alla conquista di Milano, avendo la nipote Isabella sposato il duca Giangaleazzo Sforza, al cui posto governava il fratello Ludovico detto il Moro. Alla morte di Giangaleazzo, Alfonso arruolò un esercito e mosse alla volta di Milano, con l’accordo delle Repubblica di Genova. Ludovico il Moro, vistosi perso, invocò l’aiuto della Francia.

Al giovane re Carlo VIII, ambizioso e orgoglioso, appena insediato sul trono, si presentò l’occasione giusta. Nella primavera del 1494 attraversa le Alpi, non soltanto per difendere il ducato di Milano, ma per conquistare l’Italia. Il suo obiettivo è il regno di Napoli, anche per vendicare l’affronto dei Vespri siciliani del lontano 1283.

Il sogno di ripristinare l’impero di Carlo Magno, naufragato in passato, sembra a portata di mano. Il ducato di Savoia, Genova, Pisa, la Signoria di Firenze, gli altri signori dell’Italia centrale, il Papa lo accolgono entusiasti. Alfonso d’Aragona fugge da Napoli e la città spalanca le porte ai Francesi. In pochi mesi si scatena l’uragano, perché le alleanze di un tempo vanno in frantumi. Il timore che Carlo VIII voglia diventare padrone d’Italia fa saltare gli accordi e anche Ludovico il Moro teme per il suo trono.

Il fronte si capovolge e Carlo VIII, pesantemente sconfitto a Fornovo, è costretto a tornare in Francia. E’ la prima di una lunga serie di rovesciamenti di alleanze e di accordi che porterà l’Italia ad essere campo di battaglia permanente per un lungo periodo, con conseguenze devastanti sul piano politico, economico e sociale. Per fortuna le conseguenze in campo culturale e artistico non sono state pesantissime, anche per la diffusione di abbazie e monasteri, cattedrali, chiese, castelli, fortezze e residenze signorili in ogni angolo dell’Italia centro-settentrionale e anche nel Regno di Napoli una discreta nobiltà di origine romana, bizantina e poi normanna, accanto alle istituzioni religiose, aveva prodotto ingenti monumenti architettonici e opere d’arte. Secondo alcuni storici e soprattutto studiosi di storia dell’arte, la contaminazione di stili e pratiche aveva favorito il rapido sviluppo di nuovi linguaggi. Un esempio per tutti sarà il rapido passaggio dallo stile gotico a quello rinascimentale e alla diffusione della maniera italiana in molte parti d’Europa. Anche questa fascinazione dell’Italia come terra della classicità, dell’eredità romana e della bellezza contribuì ad attrarre i regnanti stranieri, sui quali il peso della cristianità si aggiungeva agli elementi che sono stati ricordati. Soltanto dopo il Concilio di Trento l’elemento religioso avrà il sopravvento e provocherà le tragedie che si protrarranno per secoli. Ma tutto questo Carlo VIII non poteva saperlo quando iniziò la sua avventura romantica, malconsigliato da molti uomini della corte interessati per diverse ragioni agli affari italiani. Alcuni erano esuli, come il milanese Giangiacomo Trivulzio, altri avventurieri e diplomatici intriganti. Ma quando il giovane re francese si rese conto della realtà italiana, molto differente rispetto a come gli era stata prospettata, il danno era stato già provocato e non c’era più possibilità di ripararlo se non con il precipitoso ritorno a Noyon.

Leonardo in quel tempo è a Milano, dove era giunto nel 1482. Lavora al servizio del duca, esegue numerosi ritratti, affresca l’Ultima Cena, progetta la fusione del monumento equestre a Francesco Sforza e pone mano alla sistemazione urbanistica della città, progettando un sistema di canali che ne cambiano la fisionomia medievale in quella moderna, giunta fino al Novecento, collabora alla bonifica delle terre di Vigevano dove il Moro ha costruito una azienda agricola modernissima, sul modello della villa romana.

Luigi XII, nuovo re di Francia, nel 1499 riprende l’offensiva sull’Italia, puntando direttamente su Milano, di cui rivendica il possesso per essere il nipote di una Visconti. Lo accompagna un giovane cavaliere, alla testa di un piccolo esercito composto di mercenari: è Cesare Borgia, duca di Valentinois, figlio di Alessandro VI, ricompensato con il titolo nobiliare e un appannaggio militare per avere perorato la dispensa papale per il giovane re, in procinto di sposare la cognata. Ludovico il Moro fugge da Milano e si rifugia a Innsbruck alla corte dell’imperatore Massimiliano, a cui ha dato in sposa la figlia Bianca, accompagnandola da una ricchissima dote che ha impoverito i forzieri del ducato.

Firenze è stata devastata dalla predicazione di Gerolamo Savonarola e dopo la sua esecuzione capitale, la Repubblica affidata a Pietro Soderini, tenta di risollevarsi, riuscendoci con l’aiuto delle famiglie più potenti. Anche i Medici in esilio non sono estranei a questo processo di rinascita cittadina.

Leonardo si reca a Mantova ospite di Isabella d’Este alla corte dei Gonzaga e poi si dirige a Venezia, in compagnia del matematico Luca Pacioli. L’assedio a Venezia cessa senza gravi conseguenze.

Ma Cesare Borgia scatena la tempesta nella Romagna, sperando di formare un principato da affiancare allo stato pontificio, sgominando con l’inganno e la violenza più crudeli gli storici feudatari che risalgono all’Esarcato bizantino. Memorabile l’assedio di Imola e di Forlì, alle cui difese provvede personalmente Caterina Sforza, leggendaria combattente. Leonardo è al fianco di Cesare, come ingegnere militare. L’avventura dura poco tempo e all’inizio del 1503 il maestro fa ritorno a Firenze, probabilmente contrariato dagli orrendi delitti commessi dal Valentino a Fano e Pesaro, di cui è testimone anche Niccolò Machiavelli che il maestro aveva conosciuto e di cui apprezzava la vasta cultura storica e politica.

La morte di Alessandro VI complica la situazione. I feudatari romagnoli riprendono il sopravvento, Cesare è costretto a fuggire. Leonardo a Firenze incontra il giovane Michelangelo ed è subito scontro. La Repubblica fiorentina tratta con rispetto entrambi e affida importanti lavori ai due artisti più celebri del momento. Il gonfaloniere Piero Soderini ha una particolare attenzione per l’anziano maestro. Durante la guerra contro Pisa, Leonardo progetta un canale per deviare il fiume Arno e costringere l’antica Repubblica marinara alla resa, ma l’impresa fallisce anche per le avverse condizioni atmosferiche che provocarono piogge torrenziali.

Charles d’Amboise, governatore francese della Lombardia, richiama Leonardo a Milano, a cui affida numerosi incarichi. Ma l’avventura francese si complica per l’intraprendenza di Venezia, dopo la riconquista dei territori strappati all’imperatore che li aveva conquistati in seguito alla battaglia di Agnedello del 1508.

Il nuovo papa Giulio II promuove la lega di Cambrai, dal nome della cittadina borgognona ai confini delle Fiandre, contro la Repubblica di Venezia che era riuscita a riconquistare tutti i territori sottrattele dall’Imperatore austriaco. Inizia così un nuovo capitolo della battaglia d’Italia, come viene chiamata la guerra di conquista scatenata improvvidamente da Carlo VIII. Lo scontro tra le potenze europee che agiscono sullo scacchiere italiano è inevitabile e si materializza militarmente a Marignano, località nei pressi di Milano oggi nota con il nome di Melegnano, il 13 settembre 1512, in cui Luigi XII risulta dominatore. Marignano è detta anche «la battaglia dei giganti» per l’importanza dei partecipanti. Il Papa, spaventato dal successo francese, temendo che i francesi possano puntare nuovamente su Napoli e il regno meridionale, abbandona gli alleati, compiendo un tradimento che avrà immediate ripercussioni. Con un atto di abile diplomazia, tra minacce di scomuniche e ripercussioni economiche e militari, costituisce la Lega Santa proprio contro la Francia. Ogni Stato si riarma, facendo affidamento su contingenti propri e truppe mercenarie, pensando di trarre vantaggio in un modo o nell’altro. Lo scontro è inevitabile: ancora una volta Francia da una parte e Spagna dall’altra. In questo caso la Spagna è sinonimo di Impero, anche se l’assestamento definitivo dell’Impero avverrà subito dopo l’elezione di Carlo V. La battaglia di Ravenna nel 1515 costringe Luigi XII ad evacuare la Lombardia. E’ l’ennesimo fallimento del sogno francese di riconquistare l’Italia.

Ma non tutto è perduto. Alla morte di Luigi XII nel 1515, il successore Francesco I riprende l’avventura italiana, riconquista Milano alla testa di un esercito. E’ la fine della ducato milanese, della dinastia sforzesca e del tempo felice di Leonardo. Il quale aveva già cercato nuove strade, rivolgendosi a Giuliano de’ Medici, fratello del Papa Leone X, che lo aveva condotto con sé a Roma già nel 1513, ospitandolo in un locale appositamente attrezzato a studio all’interno del Vaticano, nella villa del Belvedere.

Qualche anno di tregua serve per preparare nuove avventure. La Spagna ha riconquistato il regno di Napoli e si prepara a ottenere il tanto sospirato controllo della Lombardia. Francesco I è ancora saldamente al potere, ma l’imperatore Carlo V che riunisce la corona d’Austria e di Spagna, coadiuvato dal ducato di Milano e di Mantova e da altre signorie, scatena l’offensiva e a Pavia il 24 febbraio 1525 il giovane re subisce un pesante rovescio militare che lo costringe a lasciare definitivamente l’Italia. Leonardo non fa in tempo ad assistere a questa catastrofe che prepara ulteriori sciagure per l’Italia, di cui la più grave sarà il Sacco di Roma del 5 febbraio 1527, perché si spegne nel maniero di Cloux, nei pressi del castello di Amboise, il 2 maggio 1519, assistito dal fedele discepolo Francesco Melzi e dalla cuoca francese Mathurine.

Ogni nazione racconta quel tormentato periodo a modo proprio, a seconda degli interessi nazionali e dei punti di vista storiografici. Più complicato è tracciare una sintesi per quanto riguarda l’Italia, vista la varietà dei soggetti. Ma per fortuna esiste una vastissima letteratura che consente agli studiosi contemporanei di attingere alle fonti e quindi formulare opinioni e giudizi circostanziati e obiettivi.

Ma per l’Italia è la più grave sciagura della sua storia, dopo la caduta dell’Impero romano. Nulla sarà più come prima, anche se lo scenario non cambia di molto. Neanche le guerra dinastiche del Seicento riusciranno a modificare i confini dei diversi territori. Quello che cambierà saranno i governanti e i paesi che si impossesseranno di quello che un tempo furono ducati, contee, marchesati, comunque splendide corti ricche di arte e ei cultura che hanno fatto grande l’Italia del Rinascimento e che il Barocco non riuscirà ad eguagliare.

Alcuni protagonisti di quel periodo storico così confuso e tormentato sono diventati nel tempo vere e proprie leggende, entrando a fare parte della cultura popolare. Il riferimento più immediato è a Ettore Fieramosca, nobile combattente di Capua tra le file napoletane e uno dei protagonisti della disfida di Barletta; il romanzo di Massimo d’Azeglio all’inizio dell’Ottocento ne ha fatto quasi un eroe risorgimentale, antesignano della battaglia per l’identità nazionale. Anche Giovanni de’ Medici, detto delle Bande Nere, combattente tra le file pontificie, morto per le conseguenze di una ferita alla gamba provocata da un colpo di falconetto durante la battaglia di Governolo nel 1526, nel tentativo di ostacolare l’avanzata dei lanzichenecchi dell’imperatore Carlo V, sarà una figura leggendaria della italianità, forzata dall’ondata patriottica e nazionalistica.

Ma ci sono figure femminili che sono rimaste leggendarie, come Caterina Sforza, signora di Imola e Forlì, strenua combattente per l’indipendenza del suo territorio dall’assalto di Cesare Borgia per conto del papa Alessandro VI; oppure Caterina Cornaro regina di Cipro che, pur non avendo un ruolo nel conflitto interno alla penisola, deve lasciare l’isola greca caduta in mano ai Turchi e riparare ad Asolo dove la sua corte diventa un centro intellettuale prezioso; e ancora Vittoria Colonna, duchessa di Pescara che anima la cultura e la poesia dell’epoca con la sua grazia. Per non dire di Lucrezia Borgia, Isabella d’Este, Giulia Farnese: straordinarie figure femminili sulle quali il giudizio storico resta ancora controverso, pur essendo riconosciuto il ruolo svolto nelle vicende delle rispettive famiglie e quindi, di riflesso, in quello nazionale. E si potrebbe continuare a lungo…

Il destino più triste fu quello della Repubblica fiorentina. Dopo un lungo assedio da parte delle truppe dell’imperatore, la città fu costretta alla resa e la famiglia Medici poteva fare ritorno nella città che aveva contribuito a fare grande e gloriosa. Il figlio di Giulio de’ Medici, divenuto pontefice nel 1523 dopo la morte di Adriano VI, l’olandese Adriaan Florensz dai severi costumi pauperistici, con il nome di Clemente VII, aveva ordito le sue trame per favorire questo progetto, non riuscendo tuttavia ad evitare l’assalto e il saccheggio di Roma da parte della soldataglia di Georg von Frundsberg nell’infausto mese di maggio del 1527.

L’incoronazione di Carlo V con la corona ferrea dei primi re d’Italia a sovrano del Sacro Romano Impero nella basilica di S. Petronio a Bologna, il 24 febbraio 1530, suonava come un’amara beffa per tutti. Né potevano consolare i matrimoni tra le dinastie di Francia e di Spagna che vedevano protagoniste dame e cavalieri italiani ad indorare la pillola. Margherita d’Austria, la Madama dell’omonimo palazzo romano, oggi sede del Senato della Repubblica, e Caterina de’ Medici appartengono ad un tempo già lontano rispetto a quelle vicende.

CONCLUSIONE

Nel frattempo, un evento imprevisto complica lo scenario europeo, soprattutto nelle terre dell’Impero. Un monaco agostiniano di Erfurt, di nome Martin Luther, dopo un viaggio a Roma per incontrare Leone X, rimane sconvolto di fronte alla degenerazione dei costumi nella curia pontificia e anche nella Città eterna. Al ritorno in Germania, inizia a predicare la necessità del ritorno alla semplicità e alla purezza dei comportamenti all’interno della Chiesa. Il mercato delle indulgenze non è più tollerabile, sia per il valore teologico in sé sia per il modo come sono riscosse dai vescovi nei vari territori. Principi, duchi, margravi elettori e borgomastri sono pressoché tagliati fuori da ogni controllo e soprattutto da qualsiasi possibile utilizzazione delle somme versate dai fedeli per guadagnarsi l’indulgenza e assicurarsi il regno dei cieli. L’indulgenza plenaria per tutti i peccati, ottenuta a peso di moneta, non è tollerabile da parte di Martin Lutero e di tanti vescovi germanici e dei paesi nordici. Il 10 novembre 1517 il frate agostiniano pubblica le sue 95 tesi sule indulgenze, inchiodandole sul portale della cattedrale di Wittenberg. E’ l’inizio del grande scisma nella chiesa cattolica che porterà alla nascita della chiesa protestante, poi a quella calvinista e infine alla chiesa anglicana. Il concilio di Trento convocato decenni dopo lo scisma non riuscirà a riconciliare le diverse chiese, mentre guerre fratricide getteranno l’Europa settentrionale nella desolazione, fino alla tragedia della notte di S. Bartolomeo e poi alla spaventosa carneficina della guerra dei Trent’anni (1618-1648).

L’Italia subirà le conseguenze dei conflitti attraverso le decisioni che saranno prese dalle potenze continentali, senza che i regnanti italiani possano avere ruolo significativo, a cominciare dallo stesso pontefice. A restare indipendenti erano rimasti Genova, Venezia, Mantova, Ferrara, Firenze, mentre il ducato di Savoia aveva esteso i propri domini in tutto il Piemonte. Il prezzo maggiore sarà pagato dal regno di Napoli, incardinato definitivamente alla Spagna. Sarà la corona spagnola a designare il vicerè, magra consolazione per una nazione che aveva svolto un ruolo fondamentale nel Mediterraneo dai tempi leggendari della guerra di Troia e poi nei rapporti con Greci, Fenici e Cartaginesi.

Sarà il generale Napoleone Bonaparte che cancellerà con l’uragano bellico del 1797 lo scenario scaturito dalla sciagura del 1494. Il Congresso di Vienna del 1815 avrebbe ripristinato gli stati regionali, confermati dal successivo Congresso di Verona del 1822, perché l’Italia, secondo la dottrina di Clemens von Metternich, era e doveva restare una semplice espressione geografica. Sarà l’epopea risorgimentale, l’avventura garibaldina e poi la dura guerra delle trincee sul Carso a restituire unità e dignità nazionale alle terre di Celti, Etruschi, Piceni, Sabini, Latini, Sanniti, Calabri, Siculi e Sardi riuniti sotto le aquile romane.

Leonardo da Vinci era sepolto nel cortile del castello di Cloux, ma i sanculotti di Maximilien Roberspierre nei giorni del Terrore nel 1793 avevano profanato molti cimiteri e purtroppo dei resti del grande genio italiano non rimase nulla.

Agostino Bagnato

Roma, agosto 2019

 

 

 

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