La Marcia dell’anno ‘30

Si parla di Anton Semënovič Makarenko facendo riferimento in modo prevalente al Poema pedagogico (Pedagogičeskaja poema[1]), la sua opera narrativa più famosa che contiene gli elementi basilari della sua esperienza di educatore e di pedagogista. Ma ci sono altre opere che sono ugualmente importanti e che raramente vengono citate e soprattutto difficilmente sono studiate. Mi riferisco ai romanzi autobiografici La marcia dell’anno ’30 (Marš tridcatogo goda) e Bandiere sulle torri (Flagi na bašnjach). Altre opere sono ugualmente significative nella proposizione della pedagogia makarenkiana e nella esplicitazione della sua esperienza di educatore, come Consigli ai genitori, titolo editoriale e non originale, oltre alle conferenze tenute in numerose occasioni, compreso quelle alla radio sovietica, ma non rientrano nel carattere narrativo che maggiormente caratterizza il Makarenko letterario. Uno squarcio molto interessante sulla personalità del maestro è fornita dalla corrispondenza con la moglie Galina Stachievna Sal’ko, anche se prevalgono gli aspetti privati e gli interessi culturali della coppia.

Vediamo di esaminare il carattere e i contenuti della Marcia dell’anno ’30.

Si tratta della prima opera narrativa di Anton Semënovič Makarenko, pubblicata nel 1932, su incoraggiamento di Maksim Gor’kij, amico e sostenitore del maestro. Il 7 dicembre 1932, Gor’kij scriveva da Sorrento, dove risiedeva da alcuni anni, parole entusiaste:

Avete presentato molto bene la comune e i comunardi. In ogni pagina si sente il vostro amore per i ragazzi, la vostra continua preoccupazione per loro e l’acuta comprensione dell’animo infantile. Mi congratulo sinceramente con voi per questo libro. Ne scriverò probabilmente qualcosa. [2]

In quegli stessi anni, Mkarenko stava portando a termine la redazione del Poema pedagogico, ma era pieno di dubbi e di reticenze sul valore letterario dell’opera che andava componendo. Il giudizio positivo di Gor’kij sulla prima fatica e gli incoraggiamenti successivi, lo indussero a concludere rapidamente la stesura di quella che sarebbe stata la sua opera più importante e diventata, com’è noto, un vero e proprio avvenimento letterario, non soltanto in Unione Sovietica.

La marcia dell’anno ’30 si può considerare la prosecuzione del Poema pedagogico, nonostante sia stata scritta in contemporanea con il Poema e sia stata pubblicata prima, in quanto affronta l’esperienza della comune Dzeržinskij, temporalmente successiva alle comuni Gor’kij e Kurjaž descritte nel Poema e anche della colonia Primo maggio, le cui vicende sono narrate in Bandiere sulle torri.

Unico così è il filo dell’azione che lega le tre opere che, pur non assumendo mai carattere sistematico, nascono come descrizione ed esposizione di fatti; come direttive per un’azione concreta. C’è da dire che le tre opere sono tutte una celebrazione del collettivo. Questo nella sua prima fase (colonia Gor’kij) risentì di tutte le incertezze proprie degli inizi e di tutti i pericoli di rovina da cui lo salvarono […] la fede e l’ottimismo di Makarenko. Nella seconda fase (Comune Dzeržinskij) il collettivo è ormai solido nella sua struttura, nelle sue aspirazioni e nelle sue esperienze. Sette anni nono sono passati inutilmente. Inoltre la società sovietica ha superato i suoi momenti di crisi più acuta e gli sforzi per la realizzazione del primo piano quinquennale hanno già dato i loro frutti. Tutte coteste esperienze rivivono, in forma più o meno diretta nel romanzo a carattere autobiografico Bandiere sulle torri, che appunto, mette a fuoco i progressi della comune Dzeržinskij negli anni dal 1931 al 1935. [3]
E’ l’anno dell’assassinio di Sergej Kirov, il segretario del partito di Leningrado, preso a pretesto per scatenare le prime purghe staliniane, vero e proprio prodromo della tragedia del comunismo e dello stalinismo. Si saprà più tardi che fu Stalin a ordinario l’assassinio di Kirov, il più brillante dei dirigenti politici, nel quale temeva un antagonista pericoloso. Lev Davidovič Trockij era già stato esiliato e sarà a sua volta ucciso a Città del Messico nel 1944.

La marcia dell’anno ’30 riprende i temi del Poema pedagogico, li sviluppa, in forma persuasiva, e direi visiva, attraverso la narrazione dei fatti educativi che il Makarenko svolse, con animo di educatore più che con pretese teoriche, nel magistero vivo della comune Dzeržinskij. Per questo suo aspetto caratteristico di scuola viva nella quale l’esperienza consumava l’ansia della ricerca di metodo, La marcia anticipò le teorie orientative che la pedagogia sovietica attuò nel 1931 con il decreto Sulla scuola elementare e media nelle quali, come è noto istruzione e lavoro, scuola e officina, attività lavorativa e attività intellettuale trovarono una loro prima conciliazione.[4]

Una lettura attenta della Marcia dell’anno ’30, a dire il vero, mette in evidenza i limiti narrativi, rispetto al Poema pedagogico e anche di Bandiere sulle torri. Nonostante i parere entusiasta di Gor’kij, si potrebbe parlare di un’opera non riuscita. Il romanzo è lento, prolisso, enfatico. Si presenta con i caratteri di una relazione pedagogica piuttosto che come opera narrativa. Il carattere autobiografico risulta evidente in ogni pagina, ma si tratta della spiegazione di una esperienza, non di un racconto vero e proprio, come nelle opere successive.

I personaggi sono appena abbozzati, la loro psicologia è presentata in modo approssimativo, molte situazioni appaiono scontate. Ma la zampa del leone è già presente, nella descrizione dei luoghi, nella presentazione delle attività, nella organizzazione e nel funzionamento del collettivo, nella esplicitazione dei contrasti generazionali e di metodo. L’io narrante è lo stesso Anton Semenovic Makarenko, direttore della comune, circondato da personaggi dalla spiccata personalità e distintività. In numerose occasioni emerge la forza narrativa dell’autore, la sua inventiva, la padronanza del linguaggio.

Davanti ad un piccolo bosco di querce, con la facciata rivolta verso Char’kov, sorge una bella casa grigia con aiuole fiorite, un giardino con tanti alberi di frutta, campi di tennis, di palla a volo, di cricket ed un vasto campo aperto. Ovunque odore di fiordalisi e di artemisia.

Questa è la sede della più giovane Comune infantile dell’Ucraina, inaugurata il 29 dicembre 1927, che porta il nome di Feliks Dzeržinskij. Centocinquanta comunardi (centoventi maschi e trenta donne) abitano lo splendido edificio costruito proprio per loro.[5]

L’incipit del romanzo è diretto. Makarenko non vuole disperdee energie, va dritto al cuore del problema. Tuttavia, non perde il gusto del narratore, formatosi sulla vasta opera narrativa di Maksim Gor’kij.

I vecchi monasteri o le case degli ex proprietari terrieri venivano generalmente adoperate come case dei fanciulli o come colonie.

Durante la Rivoluzione, questi vecchi edifici erano ridotti a dei ruderi, e prima di adattarli ad abitazioni per ragazzi, bisognava procedere ai restauri. I falegnami e gli stagnini dei dintorni giravano per le ville con i loro semplici arnesi eseguendo le riparazioni e decorando gli edifici con toppe di pino fresco e con primitive stufe panciute.

Nelle stanze, una volta tanto accoglienti, si sistemavano gli oggetti dell’educazione sociale. Accanto ai fragili lettini di filo di ferro si appendevano come ornamento, ai chiodi delle pareti, sudici asciugamani.

Gli stessi falegnami, nel loro onesto slancio, innestavano zeppe di pino fra le tavole sconnesse del parquet. I balconcini predestinati ai piedini delle donne di Turgenev ed i parapetti su cui poggiavano le loro tenere manine, non potevano sostenere gli esercizi fisici della gioventù disorganizzata, e i loro rottami rendevano d’inverno l’ultimo servizio all’umanità: la fiamma delle stufe divorava con grande avidità codesto legno secco.[6]
L’esperienza pedagogica emerge in tutta la sua positività, avendo alle spalle gli anni delle comuni Gor’kij e Kurjaž. Ma l’enfasi propagandistica di molte pagine fa perdere freschezza e forza alla stessa esplicitazione della pedagogia della prospettiva, basata sulla indicazione di obiettivi concreti da conseguire di volta in volta, in modo da produrre fiducia e certezze nei ragazzi impegnati nella comune.

La comune era nata per iniziativa dei membri della Ceka[7] di Charkov. Poliziotti e agenti segreti decisero di tassarsi per realizzare un monumento al fondatore della polizia segreta, Feliks Edmundovič Dzeržinskij, moro nel 1926. I cekisti[8] volevano erigere un monumento sociale allo stretto collaboratore di Vladimir Il’ič Lenin, piuttosto che incaricare uno scultore di fondere una statua da collocare al centro di una piazza di Char’kov. Nacque così l’idea di finanziare la costruzione di una comune, con uno scopo duplice: da un lato ospitare besprizornye ancora numerosi all’epoca, contribuendo ad alleviare una grave piaga sociale e umanitaria; dall’altro partecipare attivamente alla realizzazione degli obiettivi del primo piano quinquennale nel campo della produzione di beni materiali. L’uomo più indicato per portare al successo il progetto venne individuato nella persona di Anton Semenovič Makarenko, che aveva ottenuto risultati impensabili con le colonie Gor’kij e Kurijaz nell’ex governatorato di Poltava.

Naturalmente, il funzionamento della comune doveva rispondere anche al mutamento dei tempi, al nuovo clima politico, allo sforzo gigantesco dell’industrializzazione, al bisogno di riportare ordine nella società. quindi, la formazione dell’uomo nuovo doveva rispondere a questi caratteri, più accentuati rispetto all’esperienza che sarà raccontata nel Poema pedagogico. Da questa esigenza nasce anche il titolo del romanzo: La marcia dell’anno ’30. Di cosa si tratta ?

Ogni anno, in occasione di ricorrenze solenni, i dzeržincy, i besprizornye della comune, unitamente ai loro insegnanti e alle maestranze, partecipavano alle sfilate celebrative. Scendevano in città in perfetta organizzazione militaresca, vestiti con la divisa ufficiale della comune, maschi e femmine. Preceduti dalla bandiera e anche dalla piccola banda costituita all’interno della comune, i ragazzi sfilano incolonnati tra lo stupore e l’ammirazione del pubblico.

Per le grandi ricorrenze della Rivoluzione la comune marcia verso la città. Le marce più importanti sono il sette novembre e il primo maggio. Durante i congressi ed i raduni, nei giorni dei saluti reciproci e delle alleanze, delle visite alla GPU[9] e dei festeggiamenti sportivi, al segnale raduno nazionale, l’organizzazione operaia della comune si considera sciolta ed entra in vigore quella militare. I reparti cessano di esistere per dar luogo ai cinque plotoni con i rispettivi comandanti.[10]
Molto suggestiva è la descrizione della marcia per le vie di Mosca: i ragazzi scoprono la grande città, capitale del Paese dei soviet in piena trasformazione e ne rimangono abbagliati.

Il 7 luglio 1929 alle sei del mattino la colonna dei comunardi si muove dalla piazza della stazione di Kursk verso l’alloggio di Mosca. Nelle strade fresche e deserte echeggiano le note della nostra orchestra. Gli occhi non ancora del tutto aperti guardano con curiosità le strade moscovite.

Eccola la grande Mosca, sogno di tutto un anno e argomento di innumerevoli discussioni! Ci incamminiamo verso il centro. All’angolo di un viale vien dato l’ordine: riposo! Ma non per riposarci piuttosto per raccoglierci. I ragazzi mi circondano, tutti sono eccitati e ansiosi.

«Attenti. Avanti marsc!»

Sull’asfalto della via Mjasnitskaja, i comunardi si chetano. Mosca rivolge a noi il suo grave sguardo di capitale, ci mostra le sue vetrine ben fornite e numerose e la prospettiva delle sue strade… Dinanzi i merli di Kitaj-Gorod (si tratta del quartiere cinese, centro del commercio moscovita ancora oggi. Nda).

«Eh questa sì che è Mosca» borbotta dietro di me il portabandiera.

Karabanov (è uno dei veterani delle colonie di Makarenko, protagonista del Poema pedagogico, giunto alla comune per portare la sua esperienza di uomo nuovo. Nda) dà il comando: «Compagni comunardi! Alla direzione politica statale, saluto!» (L’allusione è alla GPU, erede della Ceca. Nda).

Salutiamo allegramente i nostri superiori e voltiamo verso la grande Lubjanka, ora via Dzeržinskij. In questa strada c’è l’alloggio per noi, la scuola del reparto trasporti della GPU.[11]

Tuttavia, il carattere delle marce, l’organizzazione, il comportamento dei partecipanti, richiama qualcosa di militaresco e di propagandistico, anche se alla base c’è l’orgoglio di essere i ragazzi della comune, i comunardi. Sono aspetti che oggi non sono più accettati e che lasciano perplessi, anche se al tempo di Makarenko avevano un senso e rientravano negli aspetti più rigidi della colonia e della comune.

L’anno 1930 la marcia si svolge in Crimea e sui dorsali delle montagne si conclude l’avventura pedagogica di Makarenko:

Il 31 agosto alle sei del mattino ritorniamo a casa. Le nostre vacanze sono finite. Dinanzi a noi si presenta l’anno nuovo e i piani per le nuove azioni. Nei vari reparti i comandanti sono cambiati, nel primo è ritornato Volcok ed il segretario non è più Vaska Kamardinov, ma Kommuna Charlovna, una persona sostenuta, seria e colta.

Ora Solomon Borisovic godrà ancora di minore libertà nel consiglio dei comandanti. Solomon Borisovic fabbrica. Tutti gli spiazzali del nostro vasto cortile sono ingombri da materiale da costruzione; simultaneamente in vari luoghi si alzano le mura di edifici nuovi: uffici, magazzini ed officine. Tutti i piani, tracciati prima di partire per la Crimea da Solomon Borisovic stanno per effettuarsi e questo lo lega definitivamente ai comunardi.[12]
Figura molto importante nella narrazione è proprio quella dell’ingegner Solomon Borisovič, un tecnico che si ritrova nella comune per insegnare ai ragazzi il lavoro e anche per organizzare la produzione. I suoi metodi sono inizialmente in contrasto con gli obiettivi della comune. Egli fa prevalere le difficoltà alla voglia di fare, per cui si scontrano due metodi nel concepire la produzione: da un lato la tradizione e dall’altro la volontà di conseguire gli obiettivi fissati dal piano quinquennale. Anche in questo risiede la pedagogia della prospettiva di Makarenko. Il rapporto dei ragazzi, del direttore della comune e dello stesso direttore didattico della scuola Timofej Viktorovič, con gli artigiani, gli operai e i tecnici impegnati nella comune sono inizialmente difficile Makarenko si sforza di mettere in evidenza il conflitto generazionale da una parte, ma soprattutto la diversa concezione di metodo rispetto alle esigenze poste dalla pianificazione sovietica e dalla competitività tra le strutture di produzione.

Timefej Viktorovic è un uomo corpulento, coi baffi a spazzola e un naso a patata. Ha fatto la guerra giapponese e quella imperialista (la prima guerra mondiale, Nda); e durante la guerra civile ha visitato quasi tutte le parti del mondo. E’ un uomo intelligente, giocondo, ama raccontare le proprie avventure e le proprie impressioni.[13]

Vi sono aspetti nel romanzo che non convincono, anche se bisogna vederli nel contesto temporale in cui si svolgono. La lezione di ateismo appare forzata e francamente propagandistica

Molto ben tratteggiato è il problema sessuale[14] attraverso esempio positivi. Si tratta di un capitolo molto interessante, i cui contenuti si ritroveranno nel volume noto in Italia come Consigli ai genitori.

Da noi come in una qualsiasi famiglia vivono insieme maschietti e femminucce e questo non dà adito a nessuna complicazione. Ogni sana compagnia di ragazzi può vivere in queste condizioni. Se le cose non stanno così, vuol dire che quel dato gruppo di ragazzi non è sufficientemente sano, cioè non è fuso in una famiglia, non è abbastanza occupato, non ha prospettiva di avvenire, non si sviluppa, non è disciplinato, è nutrito troppo o troppo poco (sic!) ed è guidato da persone che non godono stima.

Da noi i rapporti tra maschi e femmine sono particolarmente amichevoli. Le ragazze sembrano molto più raccolte e più curate dei maschi, ma non formano una società a parte. Circa tre anni fa le ragazze sfuggivano i maschi e cercavano di starne lontane. D’altra parte i ragazzi volevano dimostrare di non interessarsi affatto alle ragazze e di considerare superflua la loro presenza in colonia.[15]
I comunardi non vivono isolati, ma sono indotti a stabilire rapporti con i villaggi circostanti,proprio per favorire l’integrazione e la normalizzazione. Del resto, nessuno parla del proprio passato. Questo approccio era facilitato anche dagli spettacoli che venivano organizzati nella comune e ai quali erano invitati a partecipare la popolazione dei villaggi.

Perskij diede alcuni spettacoli. Assistervi era per i ragazzi un vero godimento. Gli artisti di Šiv-Kovca erano goffi e un po’ comici, ma conoscevano la loro parte a perfezione e il suggeritore era sempre indietro rispetto agli artisti.

La cosa più importante fu ottenuta, i ragazzi si avvicinarono di più alla gioventù del villaggio. Attraverso il divertimento ben presto ebbero in comune altri affari. Così i giovani di Šiv-Kovca non si limitarono alla frequenza del circolo filodrammatico, ma si avvicinarono molto alla vita della comune e divennero assidui frequentatori delle assemblee generali. Ben presto non seppero liberarsi dall’esagerata stima non tanto verso i nostri ragazzi quanto per la severità e per la precisione della nostra vita, per cui i comunardi continuarono a trattarli sempre con l’aria di una leggere protezione.

I rapporti con il villaggio si rafforzarono tanto da indurre i komsomolcy[16]a costituirvi una biblioteca. Le nostre conferenze sulla politica estera, sui congressi del partito, sui piani quinquennali, prima della proiezione cinematografica, avevano una grande importanza. Su questi argomenti avevamo fatto circa venti conferenze illustrando con molta precisione alcune branche tra le più importanti dell’economia nazionale. Si era stabilito un legame di amicizia con le organizzazioni dei lavoratori e soprattutto simpatizzammo con il Club dei metallurgici e con gli operai del Vek (Vserossiskij električeskij komitet, Comitato panrusso degli elettricisti, Nda).[17]

Come si vede, la colonia vive attivamente nella società del proprio tempo, ne è parte attiva, si sente coinvolta nelle vicende politiche ed economiche, si collega con il mondo circostante, proprio per essere parte integrante della Repubblica dei soviet. Si tratta di aspetti molto importanti della pedagogia di Makarenko che non ci si deve mai dimenticare di sottolineare per la loro modernità.

Molto efficace è la descrizione del Consiglio dei comandanti e del suo funzionamento, altro elemento fondamentale della pedagogia makarenkiana, incentrata sull’educazione alla responsabilità e alla disciplina, non imposte dall’alto ma acquisite di rettamente, nell’essere membro della comune e quindi come conquista doverosa verso se stessi e gli altri.

Il consiglio dei comandanti si riunisce nello studio del direttore. Le sedute regolari hanno luogo il nono giorno di ogni decade, alle cinque e mezzo dopo la prima cena. Di solito il consiglio è annunziato nell’ordine del giorno e i comunardi presentano tempestivamente al segretario le loro richieste: trasferimento da un reparto all’altro, permesso di fumare, tariffe irregolari, licenze, permesso per curare i denti e così via.

Alle volte il consiglio si riunisce d’urgenza. Infatti ci sono delle questioni nella vita del comunardo che non si possono rimandare. E’ molto facile radunare il consiglio, basta solo dire al comandante sorvegliante di turno: «Per piacere, ordina di suonare l’adunata del consiglio dei comandanti».

Dopo un quarto di minuto echeggia un breve segnale e non ricordo un sol caso in cui tra il segnale e l’apertura dell’adunata siano trascorsi più di tre minuti […]

La seduta comincia con l’appello[…]

Dalle particolarità del lavoro del consiglio bisogna indicarne una, la più importante. Malgrado i dissensi in seno al consiglio dei comandanti una volta presa una decisione e messa a verbale nell’ordine del giorno, a nessuno viene in mente di non eseguirla, me compreso. Può avvenire invece che i vecchi komsomolcy possono cercare di ottenere per altre vie l’annullamento, ma non possiamo immaginare affatto che l’ordine non venga eseguito.[18]

Quando giungono delegazioni straniere in visita alla colonia, la sorpresa maggiore riguarda proprio il funzionamento interno, l’autodisciplina, l’orgoglio che si riscontra nei ragazzi di appartenere a una comunità. E se qualcuno chiede qualcosa sul passato dei ragazzi, si sente rispondere che il passato è totalmente dimenticato. Anton Semënovič, in qualità di direttore, precisa che non ci sono besprizonye nella colonia, ma persone normali che sono state sfortunate per circostanze che non dipendono da loro. Questa parte, sul piano narrativo, risulta molto efficace e lascia un segno nel lettore. Del resto è il pezzo forte della pedagogia makarenkiana.

Al contrario, l’elogio della Čeka e della GPU, alla luce della moderna conoscenza dei fatti e della gravissima responsabilità di questi organismi nella repressione staliniana, lasciano perplessi e suonano un po’ falsi e sinistri. Ma bisogna sempre tenere conto del contesto storico in cui i fatti narrati si collocano.

Si potrebbe proseguire a lungo. Ma gli elementi riportati sono sufficienti per comprendere che La marcia dell’anno ’30 costituisce un’opera che non può essere trascurata o ignorata per la piena comprensione dell’esperienza padagogica di Anton Semënovič Makarenko.

Agostino Bagnato

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[1] Sugli aspetti generali del Poema pedagogico, vedi Agostino Bagnato, Lezioni su Makarenko, l’albatros, Roma 1994 e Makarenko oggi, l’albatros, Roma 1996. Sugli aspetti pedagogici, vedi Nicola Siciliani de Cumis, I bambini di Makareno, Edizioni ETS, Pisa 2002.

[2] Cfr. A. S. Makarenko, La marcia dell’anno’30, Armando editore, Roma 1960. Nell’interessante introduzione dovuta ad Anna Sciortino sono riportate le parole di Gor’kij, p.13.

[3] Cfr. A. S. Makarenko, La marcia dell’anno ’30, op. cit., introduzione di Maria Sciortino, pp. 13-14.

[4] Ibidem. p. 14. Vedi anche di A. Sciortino, Un educatore e pedagogista sovietico, in «Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo», 1959, pp. 49-100.

[5] Ibidem, p. 21.

[6] Ibidem, p. 26. Come si vede, Makarenko non rinuncia alla polemica con la società distrutta dalla Rivoluzione, quella piccola nobiltà terriera e la borghesia che si ritrovano nella produzione letteraria di Ivan Turgenev.

[7] Črezvyčajnaja Komissija (Vserossiskaja) po bor’be Kontrorevoljuciej i Sabotažem (Commissione centrale panrussa per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio), abbreviata in Čeka, istituita nel 1918 da Feliks Edmundovič Dzeržinskj.

[8] Così venivano chiamati gli appartenenti alla polizia segreta.

[9] Gosudarstvennoe političeskoe upravlenie (Direzione politica statale), nome dato alla polizia segreta dopo lo scioglimento della Čeka. Negli anni Trenta è stato il braccio operativo della terribile repressione staliniana.

[10] A. S. Makarenko, op. cit., p. 137.

[11] Ibidem, p. 143. Alla caduta del comunismo, nel 1991, piazza Dzeržinskij, a ridosso della Piazza Rossa e del Cremlino, è tornata a chiamarsi Ploščad’ Bol’šaja Lubjanka. Il palazzo della Lubjanka, sede della polizia segreta, evoca gli orrori della persecuzione staliniana prima e dopo la seconda guerra mondiale. La grande poetessa Anna Achmatova ha composto il poema Requiem per rievocare i terribili anni in cui si recava nel carcere per avere notizie del figlio e incontrava madri, mogli e figlie di tanti detenuti innocenti. Si tratta di uno dei vertici della poesia russa del secondo dopoguerra.

[12] Ibidem, p. 169.

[13] Ibidem, p. 117

[14] Ibidem, vedi il capitolo Il problema sessuale, p. 126.

[15] Ibidem, p. 126

[16] Sono i membri della Unione della gioventù comunista leninista, ovvero del Kommunističeskij sojuz molodëži Lenina.

[17] Ibidem, p. 95

[18] Ibidem ,p. 103 e sgg.