Sul Poema pedagogico di A.S. Makarenko

Le cure profuse da Nicola Siciliani de Cumis, sia dal punto di vista formale che sostanziale, per questa nuova edizione del Poema pedagogico di A. S. Makarenko, la rendono preziosa. È noto che Friedrich Nietzsche, ripetendo alla lettera un verso di Pindaro nel sottotitolo della sua mirabile autobiografia Ecce Homo, promette ai pochi eletti, capaci di una «lettura lenta», di chiarire «come si diventa ciò che si è», negando in limine ogni possibilità di auto-sviluppo. Questa promessa non gli impedisce di dedicare, nelle Considerazioni inattuali, un intero saggio, grondante di ammirata gratitudine, a «Schopenhauer come educatore» (als Erzieher). Inteso nel suo senso esplicito, il motto programmatico di Nietzsche significa semplicemente che non si diventa nulla, che si nasce quello che poi si diventa. È forse la negazione più radicale di qualsiasi tentativo di processo educativo. A. S. Makarenko si colloca all’estremo opposto, in una posizione contraria e simmetrica. Di qui, a mio giudizio, la perdurante validità della sua opera. In lui, nulla del trattato sistematico, cogente, rigorosamente deduttivo, che si ritrova, per un esempio contemporaneo, nel Sommario di pedagogia di Giovanni Gentile. Il pensiero pedagogico di Makarenko viene invece svolgendosi come un resoconto, come il «giornale di bordo», per così dire, della quotidianità di vari centri comunitari, in particolare della Colonia di Nuova Charkov, preceduta dalle esperienze della Comunità Dzeržinskij, secondo Lucio Lombardo Radice, «trasfigurata come storia di una Colonia Primo Maggio, […] materia viva del secondo grande romanzo pedagogico di Makarenko, Bandiere sulle torri».

Le considerazioni pedagogiche di Makarenko, mai puramente dottrinarie bensì filtrate attraverso corpose esperienze di vita, si presentano come racconti, rapporti di ricerca, brani di conversazioni dirette, con una immediatezza che lascia al lettore, come sua responsabilità primaria, i necessari approfondimenti. Questo punto cruciale, che interpreta e riporta il pensiero di Makarenko ad una prospettiva metaindividuale e nello stesso tempo non passivamente desoggettivizzata, tanto da far cadere i timori di subalternità a carico di una massa amorfa evocati dall’Ordre du discourse di Michel Foucault, merita attenta considerazione poiché è alla base e giustifica l’originalità dell’impostazione makarenkiana. Come è stato persuasivamente osservato, «nel Poema pedagogico […] il collettivo non accompagna mai l’azione come un semplice corso né si configura come una massa amorfa. Al contrario, è una comunità con una precisa fisionomia […] con un determinato “stile”, e deve la sua ricca strutturazione interna proprio alle personalità vive che la compongono. Per di più, superato il tradizionale intreccio individuale, l’evoluzione del collettivo non è legata a una singola personalità esemplare, ma viene sperimentata nella massa stessa, in relazione con la vita dei membri che la compongono» (cfr. Gianluca Consoli, Romanzo e rivoluzione. Il Poema pedagogico di A. S. Makarenko come nuovo paradigma del racconto. Con una nota di N. Siciliani de Cumis, Pisa, ETS, 2007, p. 84). Nel Poema pedagogico non vi è dunque soltanto la pura e semplice enunciazione della dottrina, non si danno unicamente i secchi paragrafi di un insegnamento a una via, dall’alto verso il basso, da chi sa a chi non sa, secondo un paradigma autoritario che considera ancora la cultura come un capitale privato invece che una risorsa collettiva e un patrimonio intersoggettivo.

C’è il racconto. Il processo educativo viene dipanandosi nella sua complessa trama come un romanzo giallo. Nella Colonia di cui è responsabile Makarenko gli ex-detenuti non fuggono, non mancano all’appello. Le condizioni materiali di vita sono estremamente dure, difficili, talvolta di una pesantezza quasi insopportabile. Ma i «colonisti» non fuggono. Perché? Che cosa li trattiene? Una comunità ritrovata? Un senso di vita che era andato perduto? «Veniva spontaneo chiedersi – scrive Makarenko – perché i ragazzi continuassero a vivere in quelle nostre condizioni di povertà e di lavoro abbastanza pesante senza sentire il bisogno di fuggire. La risposta andava ovviamente cercata al di là della pura pedagogia» (cfr. A. S. Makarenko, Poema pedagogico, a cura di Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Albatros, 2009, p. 45; corsivo mio). Al di là della pura pedagogia, sottolinea Makarenko. Nessun elitarismo, in lui, ma nello stesso tempo nessuna idealizzazione di un beato stato di natura alla Rousseau. Nessuna concessione, più o meno paternalistica, al mito del «buon selvaggio». Al contrario, una dura, realistica constatazione della situazione oggettiva.

«L’arrivo di nuovi membri – nota asciuttamente Makarenko – scosse fortemente il nostro instabile collettivo e di nuovo diventammo qualcosa di molto simile a un “covo di ladri”» (ibidem). E più avanti: «Prichod’ko era un vero bandito. La catastrofe avvenuta nel mio ufficio e gli stessi danni che ne aveva riportato non gli avevano fatto la minima impressione. Anche in seguito arrecò alla colonia parecchi dispiaceri» (ivi, p. 125). Ancora una volta la «pura pedagogia» non sembrava sufficiente per comprendere anche il punto di vista di questi «ragazzi di vita». Occorreva andare oltre, cercare a fondo nelle pieghe dell’esperienza quotidiana. «Le mie conversazioni e quelle degli altri educatori sul tema del contadino e del suo lavoro – osserva Makarenko, per una volta in tono piuttosto sconsolato – […] non venivano mai accolte dai ragazzi come parole di persone più informate e più esperte di loro. Dal punto di vista dei colonisti noi capivamo poco o nulla di queste cose; ai loro occhi noi apparivamo come dei cittadini intellettualoidi, incapaci di capire appieno la profonda meschinità dei contadini» (ibidem).

Qui, ma con particolare rigore commentando il suicidio di Čobot, uno dei colonisti, Makarenko approfondisce il problema dell’identità perduta o mal riuscita. E nello stesso tempo, riconosce anche i limiti della sua azione di educatore. La descrizione del fatto è agghiacciante e secca come il resoconto di un perito settore: «Čobot si impiccò la notte del tre maggio. Mi venne a svegliare il reparto di guardia e, udendo battere alla mia finestra, compresi di che si trattava. Vicino alla stalla, alla luce delle lampade, i ragazzi cercavano di rianimare Čobot appena staccato dal cappio. Dopo molti sforzi dei ragazzi e di Ekaterina Grigor’evna egli ricominciò a respirare, ma non riprese più i sensi e a sera morì. I medici chiamati dalla città ci spiegarono che salvare Čobot era impossibile: egli si era impiccato al balcone della stalla. Stando su questo balcone si era legato il cappio al collo, dopo di che si era buttato nel vuoto, ledendosi le vertebre cervicali» (ivi, p. 335).

In altra sede (si veda La critica sociologica, 164, inverno 2007) ho già osservato che il caso limite non esclude i casi della normalità. Un mondo dominato dalla tecnica non è forse un mondo legato a ritmi scanditi con precisione violenta, la cui trasgressione evoca sanzioni precise e commisurate alla sua gravità? È già stato osservato: il nostro potrebbe essere definito come il tempo del limite di resistenza del congegno. Le macchine per giungere prima e ridurre le distanze hanno portato gli uomini a non giungere mai. C’è un presente che non si può raggiungere. È il punto di intersezione fra l’urgenza per risparmiare tempo e l’urgenza che, bruciando i margini, annulla anche il tempo.

Ma ecco un paradosso che Chesterton, nel Ritorno di Don Chisciotte, ha colto molto bene e che  di  colpo  fa  cadere  nella  insignificanza la  famosa  disputa  fra  i  tecnofili  e  gli  anti-macchinisti: le macchine sono divenute così inumane che appaiono naturali, remote e indifferenti come la natura. Questo morto sistema è stato costruito su così vasta scala che non si sa dove andrà a parare né come. Ecco il paradosso ! Le cose sono diventate incalcolabili per essere calcolate. Gli uomini sono legati a degli ordigni così giganteschi che essi non sanno su chi andrà a cadere il colpo. L’incubo di Don Chisciotte viene ad essere giustificato. I mulini sono giganti.

Chi, che cosa ci salverà ? Il granello di sabbia nell’ingranaggio ? L’esaurirsi delle fonti primarie di energia ? Il caso o la distrazione di un tecnico che ha dormito poco la sera prima ? I modelli letterari hanno anticipato la riflessione filosofica. Lafcadio, l’esangue eroe delle Caves du Vatican, uccide Fleurissoire, che non conosce, che non odia, gettandolo dal treno in corsa. «Se posso contare fino a dodici, senza affrettarmi [corsivo mio], prima di vedere nella campagna un fuoco, l’uomo è salvo. Comincio: uno; due; tre; quattro; (lentamente ! lentamente !); cinque; sei; sette; otto; nove; … dieci, un fuoco … Fleurissoire non gettò neppure un grido. Sotto la spinta di Lafcadio e in faccia all’abisso bruscamente apertosi davanti a lui, fece un gran gesto per appigliarsi … Lafcadio sentì abbattersi sulla nuca una terribile graffiata, abbassò la testa e diede una seconda spinta più impaziente della prima…”» (A. Gide, Les caves du Vatican, Paris, Gallimard, 1922, pp. 195-196).

Il delitto di Lafcadio nasce dalla interferenza del caso nel tempo-spazio scandito dal treno che corre nella campagna notturna. Quando qualcuno lo interroga sulle ragioni del suo delitto, risponde, con molta naturalezza: «Come pretendete che io vi spieghi ciò che io stesso non ho capito ?». Non l’agire, dunque, come prassi e progetto, ma l’agire assurdo, l’agire che nega in radice il senso umano come temporalizzazione progettata. Qui infatti si dispiega ciò che è sottinteso in tutte le pieghe del discorso e della struttura la temporalità. Se discorso e struttura non si dispiegano uniformemente sulla superficie diseguale del sistema e hanno a che fare costitutivamente con il diverso, allora è proprio nella frattura e nella deriva a cui non possono non orientarsi che s’imbattono nel vuoto della temporalità.

In questo vuoto il continuum della struttura esistente si incrina nella discontinuità in cui emerge una struttura su piani nuovi o diversi. È appunto nell’atto di tale emergere che, come cesura nel corpo di un testo dalle scritture ininterrotte, si scopre ciò di cui la struttura esistente non riesce a prendere visione perché scoprirebbe quel che invece non ha interesse a scoprire: la sua fine e il suo passaggio al non essere più struttura. Così, per quel che concerne il discorso, il tempo è in esso presente, ma non in quanto il discorso parli esplicitamente del tempo, bensì perché tace e si interrompe, per poi riprendere con una trama diversamente annodata. Il tempo – è stato osservato – è la differenza nell’identità del discorso, è la spaccatura in cui i sensi del linguaggio si spezzano e si ricompongono.

E tuttavia, per il processo educativo, l’agire conserva un senso: è una contro-dinamica all’annullamento del tempo. Ciò che fa dell’agire un agire non è il senso, ma la necessità di riprodurre momento per momento il presente: l’agire è necessario (non libero). L’agire è integrazione temporale dei vari momenti, ma in quanto selezione. È anzi proprio il carattere selettivo dell’agire che rende possibile passare di presente in presente. L’uomo è costretto a muoversi sempre dalla sua posizione. La conseguenza più rilevante è che l’agire necessario per motivi inerenti al tempo naturale è necessario al di là della libertà e dell’illibertà. Tuttavia l’agire ha bisogno di istanze determinanti che rendano possibile la formazione di una volontà. È questo l’unico modo per comprendere se l’agire si adegui ad una violenza esterna o segua un imperativo interiore.

«La violenza che i nostri desideri – scrive Vauvenargues – patiscono da parte degli oggetti esterni è completamente distinta dalla necessità delle nostre azioni: un’azione involontaria non è affatto libera; ma un’azione necessaria può essere volontaria e di conseguenza libera».

La scansione del tempo è fondamentale. Il tempo fluisce, si dice: ruit hora; fugit irreparabile tempus. No: il tempo non fugge, non fluisce. Fluisce, cambia l’esperienza umana. Realizziamo il tempo in quanto lo viviamo, e lo viviamo con e nelle azioni che ce lo rendono tragicamente irreversibile. Non siamo nulla, in assoluto. Più precisamente: siamo ciò che abbiamo fatto, ciò che ricordiamo di aver fatto. Tempo e identità sono in questo senso termini strettamente correlativi. Ma appunto perché siamo il nostro agire non siamo nulla di definito, di dato, di congelato. Entro certi limiti e da un punto di vista storico, il soggetto è un’indebita ipostatizzazione. Può essere concepito come il crocevia di una serie di relazioni multifunzionali. Al limite è una delle superstizioni, forse la più grave, della civiltà europea occidentale, essenzialmente antropocentrica, frutto della sua cultura scritta e della concezione plutarchiana, elitaria dell’individuo-soggetto che si realizza in quanto differenziato e al limite contrapposto alla moltitudine, ai più, oi pollòi, alla massa (cfr. il mio Vietato morire, Imola, La Mandragora, 2004).

Una ex carcerata dichiara: «Il carcere è terribile perché è sempre quello. Hai voglia a mettere la TV e la filodiffusione. Anzi, è peggio, perché sono fonte continua di lite. Per molte, perché, sai, non tutte si organizzano, è la noia animalesca: alcune vengono prese dalla depressione del non fare niente. Manca ogni scansione del tempo. A salvarti c’è solo la libertà di potere, di giorno, girare liberamente all’interno dei camerotti e all’aria. Se non fosse così si suiciderebbero o ammazzerebbero la prima che capita loro vicino» (intervista a «il manifesto», 15 febbraio 1983; corsivo mio).

Questa scansione sfugge a molti raccoglitori di storie di vita. La sua importanza è fuori discussione, ma è difficile coglierne il ritmo. Non si tratta solo della distinzione (o della cesura), macroscopica, fra tempo storico e tempo esistenziale, fra storia e vissuto. All’interno della stessa storia di vita, si danno sbalzi interessanti: interi decenni riassunti da una frase e poi un solo episodio richiede ore di registrazione. Che significa ? Nella vita di una persona vi sono tempi cruciali, relativi ad esperienze intense e significative, e tempi morti, quelli della grigia routine. Il raccoglitore di storie di vita raramente riesce a rispettare questi ritmi, l’andamento polifonico di un’esistenza. Esplora i sobborghi. Raramente riesce a individuare il centro. Ancora più raramente riesce a interpretarlo. Gli gira intorno.

La novità del metodo pedagogico di Makarenko consiste nel ricreare dal basso la comunità degli ex-detenuti, riconsegnando loro il tempo, la sua scansione, il ritmo, lo stile del vivere quotidiano. In questo senso, Makarenko è un educatore classico. Prende per mano l’educando, lo conduce «fuori di sé», per farlo tornare in sé e fargli scoprire il Sé profondo, là dove l’identità si scopre correlativa, quasi gemella, per così dire, dell’alterità. Dall’ego al gruppo; dal gruppo alla storia, alla comunità, alla lucidità condivisa, alle regole esperite, anche emotivamente, come vincolanti. La frase famosa di Hegel, per cui «il criminale ha diritto alla sua pena», non è sufficiente. Occorre scavare più a fondo, recuperare l’identità perduta o mal riuscita. L’identità non è un dato fisso. E neppure un dono gratuito o danaico. L’identità è un crocevia. Makarenko scopre la socialità dell’individuale. Molti individui vengono a morte prima di aver vissuto. Muoiono dimidiati, già distrutti in vita, morti che camminano, come temeva Marcel Proust: «Nous sommes tous des morts qui attendent d’entrer en fonction». Perché ? Perché l’uomo è natura, ma è anche storia. È ragione, ma anche passione. Riunire e far convivere positivamente queste due sfere vitali è il grande, arduo compito del processo educativo. Un processo e una sfida che durano tutta la vita e la definiscono.

L’intento profondo del Poema pedagogico di Makarenko è tutto lì, nel chiarire i termini di questa tensione e nel farli interagire positivamente. Non c’è una formula data. Non esistono ricette dall’esito sicuro. Ogni individuo è un mondo a sé: unico, irripetibile, irriducibile. E tuttavia, non si dà problema dell’individuo che si esaurisca tutto nei suoi termini individuali. Senza esserne un passivo o scontato epifenomeno, l’individuo chiama in causa il sociale. I suoi problemi sono segnali di disagio. È un’antenna che vibra e lancia messaggi che sono in realtà sintomi clinici: rimandano alle contraddizioni meta-individuali della società globale. Makarenko non si stanca di interrogarsi su questa ineliminabile tensione. Si dirà: «cercare tesori e trovare lombrichi». Ma i lombrichi possono essere tesori. Riciclano. Fertilizzano. Ridanno vita a terreni esausti. I lombrichi «trasfigurano». Verso la fine della Parte terza, c’è un passo misterioso del Poema pedagogico sulla «trasfigurazione», quasi un’osservazione fatta di sfuggita, non più d’un cenno o di un confronto allusivo. «Duemila anni fa circa – scrive Makarenko – su una collina sacra simile a quella di Kurjaž, Gesù Cristo insieme a due assistenti organizzò un identico trucco nel cambiar d’abito come noi a Kurjaž» (op. cit., p. 369). Ridotta a un cambiar d’abito, questa sarebbe la «trasfigurazione» laica, una sorta di travestimento che spezza la monotonia della quotidianità. L’accenno di Makarenko mi richiama alla mente le pagine del Ramo d’oro di James George Frazer, là dove l’autore si dilunga – ma il brano fu poi espunto nelle edizioni spurgate a grande tiratura – intorno all’«uccisione del re» e alla «crocefissione del Cristo». Sembra che il mite iconoclasta che era Frazer abbia avuto paura degli stessi risultati della sua ricerca comparativa interculturale, specialmente quando questa intaccava alla base la fede cristiana come unica via per la salvezza ultraterrena nell’epoca del bigottismo vittoriano ottocentesco. Non ho motivi per credere, tuttavia, che il metodo pedagogico delineato da Makarenko dovrebbe soffrire a causa di consimili blocchi psico-religiosi. La strada che egli indica all’autosviluppo della comunità è umana, semplicemente e unicamente umana. Con un’autodeprecazione piuttosto inaspettata, il libro di Makarenko termina augurandosi che sia prossima la fine di libri simili, quando si potrà smettere di «scrivere poemi pedagogici».

Università di Roma “La Sapienza”, giugno 2009

Franco Ferrarotti