Cinema sovietico e neorealismo cinematografico italiano. Vertov-Zavattini e De Sica-Ejzenštein

1. guerra e rivoluzione

Il 1944 è un anno bisestile del XX secolo, l’Italia è tagliata in due, lo sbarco ad Anzio, la battaglia di Montecassino: da una parte gli eserciti Alleati, dall’altra l’esercito nazista. Roma viene liberata, i tedeschi via via che si ritirano compiono eccidi: a sant’Anna di Stazzema in provincia di Lucca i tedeschi uccidono cinquecento civili. A gennaio dello stesso anno l’Armata Rossa si prepara per l’assalto finale di Leningrado, infliggendo alla Whermacht, dopo novecento giorni di assedio, una delle più cocenti sconfitte della seconda guerra mondiale, liberando la città accerchiata che eroicamente resistette alla fame e al freddo, pur continuando nell’impresa di non fermare le fabbriche per la produzione bellica. L’Italia è una nazione è in ginocchio, distrutta, umiliata, in macerie, «in tocchi», come ebbe a dire il Re al Duce nel luglio del 1943, prima di farlo arrestare. Anche il cinema italiano non versa in condizioni migliori, così racconta Rossellini di quel periodo:

«Nel 1944, subito dopo la guerra tutto era distrutto in Italia. Il cinema come ogni altra cosa. Quasi tutti i produttori erano spariti. Qua e là fiorivano alcuni tentativi ma le ambizioni erano estremamente limitate. Si poteva godere di un’immensa libertà, l’assenza di un’industria organizzata favoriva le iniziative più eccezionali. Qualsiasi progetto andava bene. Fu questo genere di cose a permetterci di intraprendere lavori a carattere sperimentale; ci si accorse ben presto, d’altronde, che i film, malgrado tale carattere, divenivano opere importanti, tanto sul piano culturale che su quello commerciale. E’ in condizioni simili che cominciai a girare Roma, città aperta, di cui avevo scritto la sceneggiatura con alcuni amici durante l’occupazione tedesca… girai il film con pochissimi soldi sufficienti appena per acquistare la pellicola».

E’ proprio Roma città aperta ad essere considerato, dagli storici del cinema, l’iniziatore della corrente neorealista: un film in cui la realtà sembra manifestarsi in modo del tutto autentico e nei personaggi sembra non esserci finzione. Nell’opera, come scrive Miccichè, «convivono il nuovo sguardo sulla realtà e i residui sceneggiatoriali del passato, saldati dall’afflato epico di una sentita evocazione della Resistenza antitedesca che, specie nella seconda parte del film, scabra e convulsa al tempo stesso, appare totalmente depurata di elementi fittizi, raggiungendo vertici di intenso realismo drammaturgico[1]».

Questo nuovo modo di narrare, la scoperta di una realtà troppo a lungo celata dalla propaganda e dai silenzi di regime, farà in modo che si scoprisse che esisteva un’altra Italia, non compromessa con il fascismo e che combatteva, anche a rischio della vita, l’occupazione tedesca. Si ricordi l’epica scena della disperata corsa di Pina (Anna Magnani) uccisa dalla mitragliatrice tedesca, la fucilazione di don Pietro (Aldo Fabrizi) e le terribili sofferenze inflitte dalle SS a Manfredi, torturato a morte. Questa nuova immagine dell’Italia, veicolata dal film di Rossellini, servì a riscattare la percezione di una nazione scarsamente considerata a livello internazionale, anche se vi fu chi, come lo storico Aurelio Lepre, criticò la rappresentazione della Resistenza romana offerta dal film, quasi che questa contribuisse, celebrando una stretta minoranza, la redenzione di un popolo che, per molti anni aveva sostenuto Mussolini e il fascismo.

Per iniziare il confronto con il cinema sovietico si deve fare un salto indietro di almeno quaranta anni rispetto al periodo che stavamo considerando: gli inizi del XX secolo, e la situazione storica in cui l’impero dei Romanov si dibatteva. Dopo la guerra col Giappone, un ulteriore colpo alla già appannata immagine dello Zar di tutte le Russie, venne inflitto dagli incresciosi fatti del 1905, in cui l’esercito zarista aprì il fuoco sul corteo pacifico degli operai che per protesta si dirigevano verso il Palazzo d’Inverno. La domenica di sangue del 22 gennaio 1905 segnò negli operai, nei contadini, la convinzione che qualcosa si era rotto, che tre secoli di dominio dei Romanov venisse messo in discussione. Lo zar non era più visto come «fonte vivente del diritto e della giustizia», quella fede era ormai minata irreversibilmente. Ma il vero e proprio colpo di grazia al destino di Nicola II venne inferto dallo scoppio della Grande Guerra, cui la Russia partecipò con eserciti scarsamente equipaggiati e poco organizzati, che condusse un paese già in ginocchio, alla catastrofe più completa con milioni di morti. La Rivoluzione d’Ottobre e la devastante guerra civile tra l’armata rossa e le forze controrivoluzionarie, che speravano in un ritorno della famiglia imperiale, si risolse nella definitiva vittoria delle forze bolsceviche tra il 1921 e il 1922.

Con la Rivoluzione d’Ottobre le strutture della società sovietica si trovarono di fronte a modifiche radicali che investirono tutti i rapporti di produzione: le repentine trasformazioni, economiche e sociali, avvennero quindi, nel pieno della prima guerra mondiale e nei tre anni successivi della guerra civile ad opera dei reastauratori.

Analogamente allo stato della nazione Italia dell’immediato dopoguerra, come sopra raccontava Rossellini, queste vicende «sconvolsero per alcuni anni l’intero paese e le strutture industriali e commerciali che erano alla base dello sviluppo dello spettacolo cinematografico e della sua diffusione presso il pubblico[2]». Quello che era stata la produzione cinematografica non esisteva più. I produttori, i registi, erano espatriati tra il 1917 e il 1918 e tutto ciò che era deputato alla realizzazione di film spettacolari, come i teatri di posa, dovette essere ricostruito. Ma nelle città sconvolte dalle carestie, dalla miseria, «pochi erano i locali che proiettavano ancora film e meno ancora erano gli studi cinematografici che producevano spettacoli per un pubblico che non era più facilmente identificabile, date le profonde trasformazioni sociali in corso[3]».

Nel 1920 lo stesso Lenin scrisse a proposito del cinema: «Sarebbe opportuno far conoscere alle masse, per mezzo del cinema, l’agricoltura e la vita operaia nelle fabbriche dell’Occidente e dell’America, illustrare la lavorazione della terra con l’aiuto dei perfezionamenti tecnici moderni, e anche esporre alle masse operaie il lavoro intensivo e disciplinato nelle grandi fabbriche dell’Europa e dell’America». Tenendo presente questa dichiarazione e la situazione a cui si accennava, ne viene, di conseguenza, che l’impulso al nuovo cinema sovietico doveva andare verso la direzione di un cinema documentaristico a basso costo, che avrebbe dovuto formare ed educare le grandi masse per lo più analfabete. L’interesse di Lenin per il cinema in un dialogo con A.V. Lunačarsrkij: «Voi avete fama di protettore dell’arte, perciò dovete sempre ricordarvi che di tutte le arti, la più importante è per noi il cinema».

La Rivoluzione chiedeva un cinema autenticamente nuovo che poco aveva a che fare con quello prerivoluzionario. Fondamentale fu il ruolo delle avanguardie sovietiche e di quei movimenti artistici che, avendo dapprima aderito al futurismo, spontaneamente confluirono nella poetica ufficiale del realismo socialista dalle potenzialità del tutto inesplorate. In particolar modo andarono a creare quei legami culturali che diedero vita all’avanguardia cinematografica. Di fronte al totale deserto degli artisti dell’industria cinematografica prerivoluzionaria, questi giovani artisti «provenienti da esperienze disparate (teatro, pittura, studi scientifici), […] si appropriarono del nuovo mezzo solo dopo la rivoluzione e in rapporto ai suoi valori riuscirono a immettervi una carica innovativa tanto più rilevante quando si pensi che la nazionalizzazione dell’industria cinematografica venne decretata nell’agosto del 1919, con il conseguente, capillare controllo da parte del Commissariato del popolo per l’istruzione attraverso l’istituto giuridico della censura preventiva e quello economico del finanziamento[4]».

Torniamo in Italia, all’altro periodo della storia del cinema che stiamo analizzando, alla sua germinazione: «fin dagli anni trenta vi fu un’istanza, del tutto preideologica e abbondantemente prepolitica, che portò al rifiuto del cinema delle ‘città di cartapesta’, del manierismo attoriale e dell’anonimia paesaggistica[5]». Tre film, nati prima del capolavoro di Rossellini, possono essere considerati pre-neorealisti: in due, di questi tre film: I bambini ci guardano (1942) di Vittorio De Sica, Ossessione (1943) di Luchino Visconti, e Quattro passi fra le nuvole (1942) di Alessandro Blasetti, troviamo la firma di uno dei protagonisti di quello che sarà riconosciuto come uno dei teorici e più fervidi patrocinatori del neorealismo cinematografico italiano: Cesare Zavattini.

«Vittorio aveva già cominciato a raccogliere i suoi collaboratori, che erano i soliti. Il titolo, I bambini ci guardano[6], era il mio di una mia rubrica su una rivista Grazia. E accadde il fatto decisivo nei rapporti con Vittorio, perché uscii dall’anonimato di Teresa venerdì, e divenni parte di quelle ammucchiate di carattere sceneggiatoriale-italiano, equivoche, complesse, contraddittorie, confusionarie, dirottatrici, dovute probabilmente a una scarsa coscienza professionale […] finii col prendere in mano le redini del lavoro, con la complicità totale di De Sica: egli, essendo un autentico regista rispondeva al testo anche solo con un si o con un no, che comunque compendiavano una sua reattività intuitiva. Al tempo de I bambini ci guardano disse proprio -questo è il mio uomo-[7]».

Lo Zavattini scrittore, editore, poeta e pubblicista a diffusione popolare, incontra con De Sica il cinema, siamo agli albori di quella collaborazione De Sica-Zavattini che tanta parte avrà nel rinnovamento degli stili e del metodo di produzione di nuovi film che nell’“ansia di realtà” riponevano il loro credo: «superare il dispositivo meccanico proprio del cinema, che tendenzialmente interpone fra la realtà e il film tutta una serie di diaframmi tecnici ed estetici, giungendo a una sorta di identificazione fra la realtà fenomenica e la sua manifestazione schermica. Si volle considerare il cinema soprattutto come una -finestra aperta sul mondo-, e pertanto servirsene come eccezionale strumento di documentazione, in cui l’inevitabile finzione scenica era superata dall’immediatezza della rappresentazione, dalla genuinità di quanto veniva mostrato sullo schermo, quasi che la realtà si mostrasse nel momento in cui era cinematografata. Di qui la teoria del -pedinamento- o -del buco della serratura- cara a Cesare Zavattini[8]».

segue>>>

[1] Lino Micciché, Neorealismo, Enciclopedia del cinema, Treccani, 2004. http://www.treccani.it/enciclopedia/neorealismo_(Enciclopedia-del-Cinema)/

[2] Gianni Rondolino, Storia del cinema, Utet, Torino, 1995, p. 182.

[3] Ibidem

[4] Pietro Montani, Avanguardia sovietica in Enciclopedia del Cinema, http://www.treccani.it/enciclopedia/avanguardia-sovietica_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/, 2003, p. 2.

[5] Lino Micciché, Neorealismo, Enciclopedia del Cinema, 2004, http://www.treccani.it/index.html.

[6] Cfr. Siciliani de Cumis N., Zavattini e i bambini. L’improvviso il sacro e il profano, con una postfazione di A. Santoni Rugiu, Argo,  Lecce, 1999, pp. 190-215.

[7] Paolo Nuzzi e Ottavio Iemma, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, Roma, 1997, p.58.

[8] Gianni Rondolino, Storia del cinema, op. cit., p. 387.