Parmigianino, al secolo Francesco Mazzola (1503-1540), è una delle figure più straordinarie, ammirate e incomprese del suo tempo, protagonista indiscusso del primo Manierismo e della calcografia. La sua vita è ancora oggi avvolta da un alone di mistero che affascina gli storici dell’arte e gli studiosi del Cinquecento. Un bellissimo romanzo storico fa rivivere la sua epoca e ne traccia il percorso umano e artistico con intensa partecipazione
Autoritratto giovanile
«Veramente che il cielo comparte le sue grazie ne gli ingegni nostri a chi più a chi meno, secondo che gli piace. Ma egli è pure un dispetto grande et insopportabile a’ begli spiriti, il vedere che un che sia divenuto raro e meraviglioso e talmente abbia appreso qualche arte, che le cose sue siano reputate divine da gli uomini, allora che egli dovrebbe più esercitarsi, contentando chi brama delle cose sue, per acquistare oltre la roba e gli amici, pregio et onore, disprezzato ogni emolumento, lassati a parte gli amici e nulla curando la fama e il nome, si dispone a non volere operare, né fare, se non di rado, che appena mai se ne vede il frutto […] Atteso che infiniti dell’arte nostra, per voler mostrare più di quel che sanno, smarriscono la prima forma; et alla seconda che cercano arrivare, non aggiungono poi, perché al biasmo più ch’alla lode si sottopongono, come fece Francesco Parmigiano, del quale appresso porrò la vita».
Così l’incipit di Giorgio Vasari del capitolo “Francesco Mazzola. Parmigiano Pittore” nella monumentale Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, edito nel 1550 in Firenze a cura di Lorenzo Torrentino. L’autore prosegue tracciando il profilo biografico del grande maestro del manierismo, accanto a giudizi di natura artistica che ancora oggi persistono tra numerosi storici dell’arte. «Fu costui dotato dalla natura di sì graziato e leggiadro spirito, che s’egli di continuo non avesse voluto operare più di quello ch’e’ sapeva, averebbe nel continuo far tanto avanzato se stesso, che sì come di bella maniera, d’arie, di leggiadria e di grazia passò ognuno, così averebbe ancora di perfezione, di fondamento e di bontà superato ciascuno. Ma il cervello che aveva a continovi ghiribizzi di strane fantasie lo tirava fuor de l’arte, potendo egli guadagnare quello oro ch’egli stesso avrebbe voluto, con quello che la natura nel dipingere e ‘l suo genio gli avevano insegnato. E volse con quello, che non poté mai imparare, perdere la spesa et il tempo e farsi danno alla propria vita. E questo fu ch’egli stillando cercava l’archimia dell’oro, e non si accorgeva lo stolto ch’aveva l’archimia del far le figure, le quali con pochi imbratamenti di colori, senza spesa, traggono de le borse altrui le centinaia de gli scudi. Ma egli in questa cosa invanito e perdutovi il cervello, sempre fu povero; e tal cosa gli fé perdere tempo grandissimo et odiarlo da infiniti, che più per il suo danno che per il lor bisogno, di ciò si dolevano. E nel vero chi riguarda a i fini delle cose, non ebbe mai lasciare il certo per l’incerto, né dove ei può facilmente acquistar lode, cercare con somma fatica venire in perpetuo biasmo».
La giornalista e scrittrice Paola Brianti, forte di una lunga esperienza professionale e dotata di solidi studi storici e letterari, aggredisce la biografia di Giorgio Vasari e i tanti luoghi comuni che sul pittore Francesco Mazzola detto il Parmigianino, l’impietoso tempo ha depositato in circa cinquecento anni dalla sua morte. PARMIGIANINO. Il mistero di un genio è un romanzo storico, una biografia romanzata, un racconto su Parma e le sue genti nella prima metà del XVI secolo, un libro di storia dell’arte: tutto questo e altro ancora è questo volume che la scrittrice Paola Brianti, parmigiana di origine e legata carnalmente alla sua terra, ha ideato, immaginato, pensato e raccontato, facendo appello a tutte le risorse di conoscenza dei luoghi, delle tradizioni, delle famiglie nobiliari e borghesi della città e del suo contado. Ottimi studi universitari, frequentazioni dotte in ambienti cattolici, amicizie disinteressate in ambito politico e industriale e poi l’impegno giornalistico come inviata in Cina e in Medio oriente, incrociando i protagonisti della storia di quelle regioni negli ultimi cinquant’anni. Paola Brianti, nata a Fontanellato nei pressi di Parma, si cala nelle vicende di Francesco Mazzola che tutti chiamano Parmigianino per la sua bellezza, la grazia, l’eleganza e soprattutto l’originalità stupefacente della pittura, i ghiribizzi di cui scrive Vasari, già dall’adolescenza e dalla prima giovinezza. «Il pittore della bellezza e della giovinezza» proclama l’autrice, come volesse dichiarare il suo immenso amore per questo geniale figlio della sua amata terra. E lo fa incamminandosi sul percorso più impervio della ricerca storica e biografica e nello stesso tempo nell’analisi degli avvenimenti politici, religiosi e militari del tempo, senza mai smarrire il soggetto principale nel contesto economico, sociale, culturale, artistico e letterario, fino alle indagini più dettagliate sulla interpretazione di episodi mitologici, esoterici e teologia cristiana. Il contesto parmense negli anni del Correggio, del Battistero e della chiesa di S. Giovanni è la culla della genialità del “bel Parmigianino”, partendo dall’ambito familiare dove è costretto dalla morte prematura dei genitori a causa della peste, e dalla convivenza dei meschini zii e del cugino Gerolamo Bedoli, quest’ultimo invidioso e geloso, mediocre pittore che lo perseguita per tutta l’esistenza e che fornirà a Giorgio Vasari le informazioni per la biografia.
Tutto ha inizio con la visita del conte Gian Galeazzo Sanvitale nella chiesa di S. Giovanni di Parma dove il giovanissimo Mazzola ha dipinto san Vitale atterrato da un cavallo che sembra balzare dall’affresco. Il signore di Fontanellato, che vive nella Rocca circondata da un largo fossato che la rende inaccessibile, invita il pittore a visitare la sua temuta e misteriosa dimora. E nel ricco maniero viene introdotto in un circolo che coltiva l’amore per gli aspetti più misteriosi della classicità, tra Ovidio, Apuleio, riti egizi e favole mitologiche e allegoriche sul mito di Diana e Atteone. I nobili partecipanti al sodalizio si ritrovano in sala segreta senza finestre, chiamata “la grotta”, dove il pittore è incaricato di affrescare la volta, tenendo conto del contesto culturale che coinvolge oltre a Gian Galeazzo Sanvitale e la giovane moglie Paola Gonzaga di Sabbioneta. Il soggetto è proprio quello di Diana e Atteone. Alcune tra le personalità più in vista di Parma, dal conte Dalla Rosa all’architetto De Pleta che diventeranno protettori del Parmiaginino, partecipano alle riunioni e sono testimoni dell’impegno del pittore. Dietro la decisione di affrescare la stanza priva di luce c’è un oscuro episodio, di cui nessuno parla con l’artista, tranne la giovanissima Ippolita Gonzaga, sorella di Paola.
Parmigianino è minorenne e i suoi affari sono gestiti dagli zii che lo imbrogliano e lo sfruttano, favorendo Gerolamo Bedoli che ha sposato la figlia dello zio Pier Ilario, il più ostile alla carriera luminosa del Parmigianino. Gli viene impedito con molti pretesti a dare inizio agli affreschi nel Duomo di Parma, come da contratto; alle manovre dilatorie non sono estranei lo zio Pier Ilario e il cugino Gerolamo Bedoli. Nel frattempo la situazione muta rapidamente con la elezione a pontefice di Giulio de’ Medici che, nel solco della tradizione del cugino Leone X, ama circondarsi di artisti e umanisti. Gli amici protettori decidono di aprire la strada per Roma. Nella Città eterna Parmigianino incontra Clemente VII, Pietro Aretino, Rosso Fiorentino a cui si lega di sincera amicizia, Baldassarre Peruzzi e tanti altri nel turbolento mondo romano. Assiste al Sacco di Roma, iniziato il 5 febbraio 1527, di cui è vittima. La descrizione delle terribili giornate sono tra le pagine più belle del libro, per la intensità delle vicende narrate e per il ruolo dei protagonisti, a cominciare da Pier Luigi Gonzaga che consente a Parmigianino, in compagnia dell’anziano pittore Ugo da Carpi, di fuggire da Roma e di dirigersi verso Parma. Lo zio resta nella città devastata perché deve riscuotere alcuni pagamenti per lavori svolti dal nipote che non gli consegnerà mai.
Inizia il terzo periodo della vita del pittore a Bologna dove il 5 febbraio 1530 assiste all’incoronazione di Carlo V a sovrano del Sacro romano impero da parte di Clemente VII, evento che immortalerà in un suo dipinto. E’ confortato dall’amicizia di Giacomo, sellaio dell’imperatore e soprattutto di Properzia de’ Rossi, donna di notevole fascino e brava a intagliare il marmo e il legno. Parmigianino da tempo si dedica all’incisione, ottenendo ottimi risultati e guadagnando l’indispensabile per vivere. Un oscuro furto dei disegni preparatori, delle lastre di rame già incise e delle xilografie da parte di un collaboratore, lo getta nello sconforto; troverà anni dopo buona parte del materiale rubato nell’abitazione del cugino Bedoli, per cui comprende che si è trattato di un furto su commissione. Ma è tempo di tornare a Parma, dove lo attende l’incarico più importante della sua vita: gli affreschi nella basilica della Steccata, la chiesa che dovrà segnare il rinnovamento della pittura parmense dopo la scomparsa del Correggio. Impresa impegnativa che l’artista affronta con grande slancio, cercando di fondere alla tradizione biblica sulla Vergine Maria la nuova sensibilità teologica e religiosa, cui non sono estranei suggestioni esoteriche legate al clima rinascimentale che le sciagure delle guerre d’Italia tra Francia e Spagna non hanno del tutto spento. Ma il vento della Riforma luterana provoca reazioni che gradualmente porteranno alla formazione della Compagnia di Gesù e alla Controriforma tridentina. Le difficoltà sono subito evidenti e non sempre giustificate. C’è dietro un mistero che detta il comportamento di numerosi protagonisti, ma nessuno riesce a comprendere le ragioni. Una delle vittime indirette è anche Parmigianino. Tuttavia le vicende degli affreschi della Steccata s’intrecciano con la storia di Parma, aggredita da papa Paolo III Farnese, precedente vescovo della città, per farne il futuro ducato da affidare al nipote Pier Luigi. Il fronte interno alla città si sfalda e la lotta tra le famiglie di origine ghibellina e guelfa trascina gli uni contro gli altri, facilitando il compito “pacificatore” del pontefice. Parmigianino è impotente di fronte alla guerra fratricida, viene incarcerato perché accusato di inadempienza contrattuale dalla fabbricieri della Steccata. Anche l’accusa di alchimia che gli è stata mossa perché ha voluto fondere personalmente l’oro per le dorature dei rosoni della chiesa è stata presa sul serio dal governatore della città. Rischia la tortura ed il rogo, ma viene fatto scappare dagli amici, tra cui il conte Dalla Rosa che lo aveva abbondonato in precedenza. Perché?
Parmigianino, Figura femminile, Rocca di Fontanellato, 1522
Ecco l’epilogo della vicenda umana e artistica di Francesco Mazzola. A Casalmaggiore, sull’altra riva del Po in territorio lombardo, trova riparo da ospiti sicuri, ma la maledizione continua. Giulio Romano, impegnato alla corte di Mantova, gli subentra nella realizzazione degli affreschi della Steccata, ma rinuncia subito dopo a favore di Michelangelo Anselmi. La Corporazione dei pittori di Parma ricusa Parmigianino, abbandonandolo al suo destino, ma neanche gli intrighi dell’anziano zio Pier Ilario sono sufficienti per assegnare l’opera al molesto cugino Gerolamo Bedoli. Perché tanto accanimento ed astio contro Francesco Mazzola che ha da poco raggiunto i 37 anni? Ha perso l’originario fascino, ha la barba lunga e incolta, come scrive Vasari, veste in maniera grossolana, egli, simbolo dell’eleganza e della bellezza. Perché?
Parmigianino, Madonna dal collo lungo
Paola Brianti non indica una soluzione precisa all’enigma, ma dipana il filo della ricerca tornando all’origine, a quell’affresco nella Rocca di Fontanellato che contiene la chiave del mistero. I partecipanti al sodalizio di Gian Galeazzo Sanvitale e di Paola Gonzaga temono la vendetta dell’Inquisizione per il carattere profano della storia raccontata. Inoltre, la disputa tra Laura Pallavicino ed il cognato Gian Galeazzo per il possesso della Rocca ha portato alla muratura di ogni accesso alla segreta stanza, ma non è detto che qualcuno possa parlare, magari sotto tortura. Chi? Lo stesso Parmigianino, in un momento di disperazione?
La storia ha un terribile epilogo: Francesco Mazzola viene avvelenato. Una botticella di vino inviata in omaggio dagli amici bolognesi contiene il veleno mortale. Ma chi ha potuto ordire la trama fatale? Sul letto di morte, tra atroci dolori, il pittore interroga l’amico fraterno Damiano De Pleta su chi può essere stato. Questi risponde perentorio ai fratelli Chiozzi che avevano ospitato l’artista in fuga: «Parma». «Parma?» Come si fa a credere a una simile affermazione… «Sì, la sua città. Lo hanno ucciso quelli che temevano le conseguenze di qualche misteriosa pittura fatta da Francesco in una Rocca e che forse non è mai esistita, i suoi colleghi pittori che non sopportavano la grandezza della sua arte, lo zio e il cugino per avidità e per invidia, i fabbricieri della Steccata che avevano finito col credere alle calunnie del cugino Bedoli. Ma la vera colpevole è la sua città che non ha voluto difenderlo. Parma ha ucciso il suo Parmigianino».
Il 24 agosto 1540 Francesco Mazzola cessava di vivere. E’ andata così? Ecco il sottotitolo del bellissimo romanzo storico di Paola Brianti che lascia aperto “Il mistero di un genio”.
Parmigianino, Incisione calcografica
Un romanzo esemplare per spessore, complessità, armonia ed equilibrio tra contesto e accadimenti, tra ambienti e figure singole, tra protagonisti autentici e pochissime figure inventate per esigenze narrative. Bellissimo il modo di tratteggiare l’atmosfera familiare di Francesco, la sorella Ginevra, le donne amate tra cui due Laura, ricordo petrarchesco delle tante canzoni intonate dal Parmigianino sul suo liuto. Pola Brianti tiene conto della biografia di Giorgio Vasari, ma il suo principale compito è rendere giustizia alla verità storica, correggendo dove possibile lo stesso estensore delle Vite. L’apparato bibliografico al quale ricorre la scrittrice è veramente impressionante, dimostrazione del rigore della ricerca e della fondatezza delle cose narrate. Si tratta di una prova letteraria che merita la massima attenzione da parte del pubblico e degli stessi storici dell’arte. Una sottolineatura, questa, che viene anche dalla missiva di Antonio Paolucci, uno dei massimi storici dell’arte italiani, indirizzata alla scrittrice per esprimere il proprio compiacimento per i risultati della ricerca.
La prossima edizione, che sicuramente ci sarà, terrà conto dei giudizi preziosi dei lettori per perfezionare la qualità tipografica della stampa, corredandola magari di materiale iconografico di base, rendendo pienamente onore ad un’opera letteraria così ben costruita.
Agostino Bagnato
Roma, 10 agosto 2019
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